26 luglio 2018. In un torrido e silente pomeriggio d’estate romano, una melodia si diffonde in Viale Amelia, accarezzando le persone, i portoni e le finestre con la dolcezza sublime delle sue note: è l’Ave Maria di Shubert. Rita Atria, giovane donna, testimone giustizia a soli 17 anni, Lei che voleva vivere e crescere in «un altro mondo fatto di cose semplici, ma belle…», aveva affidato al suo diario, molto prima di quel Volo di solitudine il 26 luglio 1992, il desiderio che fossero le note dell’Ave Maria ad accompagnarla nell’ultimo viaggio, temeva che i mafiosi l’avrebbero uccisa… dopo la morte del giudice Paolo Borsellino ad ucciderla è stata l’assenza dello Stato, l’indifferenza della società civile e di tutti coloro che avrebbero dovuto proteggerla e invece l’hanno lasciata nella completa solitudine di una casa estranea, in quel palazzo di sette piani al civico 23 di Viale Amelia, lontana da qualsiasi affetto, senza sostegno. Rita sa, probabilmente ha capito tutto, Lei che ha denunciato non solo i boss di Partanna, ma anche i politici collusi, ha fatto nomi e cognomi: «Ora che è morto Borsellino, nessuno può capire che vuoto ha lasciato nella mia vita. Tutti hanno paura ma io l’unica cosa di cui ho paura è che lo Stato mafioso vincerà e quei poveri scemi che combattono contro i mulini a vento saranno uccisi… Borsellino, sei morto per ciò in cui credevi, ma io senza di te sono morta».
Iniziare a raccontare dalla “fine” ascoltando l’Ave Maria, per riprendere il filo della memoria risvegliandola con le emozioni prima che con le parole. Un filo di Memoria Attiva, tessuto giorno dopo giorno, questo l’impegno dell’Associazione Antimafie “Rita Atria”, per tenere viva la testimonianza di Rita, di cui la tragica fine è simbolo di un percorso tanto travagliato, quanto coerente e fermo, per combattere quotidianamente quel pensiero mafioso diffuso: «Prima di combattere la mafia devi farti un auto-esame di coscienza e poi, dopo aver sconfitto la mafia dentro di te, puoi combattere la mafia che c’è nel giro dei tuoi amici. La mafia siamo noi ed il nostro modo sbagliato di comportarci».
Quest’anno ripartiamo da noi – come sottolineato dalle fondatrici dell’Associazione, Santina Latella e Nadia Furnari, rispettivamente Presidente e Vicepresidente -, senza ”personalità importanti”, dalle persone del quartiere che sono presenti, da chi da ogni anno è qui per ricordare Rita, da chi non la conosceva e sentendo risuonare l’Ave Maria si è avvicinato, vuole capire, sapere… Quindi ripartire da un esame di coscienza collettivo, dal partecipare tutti attivamente, affinché la storia di Rita, la sua scelta netta verso, come disse il giudice Paolo Borsellino, « il fresco profumo di libertà che si oppone al puzzo del compromesso morale », si incarni nelle persone, nella lotta quotidiana per la ricerca di verità e giustizia, di liberazione, attraverso la denuncia concreta delle violenze mafiose e quindi nell’impegno per la difesa dei diritti e della dignità.
Per questo, ognuno dei presenti è chiamato a prendere la parole ed esprimere un pensiero, come in un passaggio di testimone. «Sono qui per me», dice Paolo, un giovane studente universitario, e si legge negli occhi l’urgenza di sapere, comprendere ciò che è stato e sottrarlo all’oblio, farsene carico.
Annamaria, che abita nel palazzo di fronte al civico 23, è qui con noi ogni anno: «Quel giorno non ero a Roma», dice con rammarico, quasi volesse prendersi il peso dell’assenza collettiva, «Sento di doverci essere», la presenza come testimonianza, affinché il racconto di Rita sia d’esempio oggi per tutti. Eppure Rita – ricorda Nadia Furnari – almeno negli ultimi istanti, dopo quel Volo, non era sola: c’erano con lei alcune donne che abitavano nel palazzo, che le hanno stretto la mano, l’hanno abbracciata come delle madri, dandole quel conforto che non ha ricevuto in vita dalla vera madre, che l’ha “disconosciuta”. Una di queste donne, tutti gli anni ci ascolta affacciata dalla finestra, quasi che il dolore del ricordo non le permettesse di avvicinarsi…
Eppure, per evitare che le persone vengano isolate occorre avvicinarsi alle storie degli altri, affinché la testimonianza e la denuncia diventi un dovere civico diffuso e collettivo e che finalmente emergano le responsabilità delle stragi del 1992-1993: Rita è la settima vittima di Via D’Amelio, insieme al giudice Paolo Borsellino e la sua scorta. Oggi è scritto in una sentenza che vi furono depistaggi da parte di uomini delle istituzioni. «Noi vogliamo sapere la verità. Per quanto brutta possa essere», esclama Rossella, nel corso del suo intervento.
Già nel 1960, Leonardo Sciascia, ne Il giorno della civetta, utilizzando la metafora della ”linea della palma” che saliva da sud a nord, fino a Roma e oltre, descriveva la mutazione dell’Italia, la diffusione capillare della mafia, del pensiero mafioso, dei metodi mafiosi. Quella metafora è da tempo realtà: perché la mafia è a Roma, come centro di potere, è stata ed è una questione di classi dirigenti, esiste una “borghesia mafiosa” che inquina questo paese… Lo sapeva bene il giudice Borsellino e nei suoi ultimi giorni di vita gli si manifestò senza “maschere” e ne rimase sconvolto, lui che si ritrovò da solo, come Falcone, «servitore dello Stato in terra infidelium»: «Ho visto la mafia in diretta»… «Mi uccideranno, ma non sarà una vendetta della mafia, la mafia non si vendica. Forse saranno mafiosi quelli che materialmente mi uccideranno, ma quelli che avranno voluto la mia morte saranno altri».
Rita Atria, donna che aveva spezzato il patriarcato mafioso, non è a conoscenza di quello che ha visto Borsellino, ma sa che cosa è veramente la mafia, conosce i suoi codici e le collusioni di cui si alimenta. Rita, stella luminosa in particolare per le tutte le donne e per tutti giovani, rosa rossa che emana il fresco profumo di libertà, ci lascia un testamento prezioso da raccogliere: «L’unico sistema per eliminare tale piaga è rendere coscienti i ragazzi che vivono tra la mafia che al di fuori c’è un altro mondo fatto di cose semplici, ma belle, di purezza, un mondo dove sei trattato per ciò che sei, non perché sei figlio di questa o di quella persona, o perché hai pagato un pizzo per farti fare quel favore. Forse un mondo onesto non esisterà mai, ma chi ci impedisce di sognare. Forse se ognuno di noi prova a cambiare, forse ce la faremo…».
Per questo l’Associazione Antimafie “Rita Atria” sta chiedendo da mesi alla Sindaca di Roma, Virginia Raggi, che venga riconosciuta la cittadinanza onoraria a Rita Atria. Mentre nell’aula capitolina si è purtroppo dato spazio alla mozione se intitolare una via della città al fascista Almirante (sic!), invece non è degna neanche di un minimo cenno di risposta e quindi giace inascoltata la richiesta dell’Associazione per la cittadinanza onoraria a Rita, che ha incarnato senza compromessi con la sua testimonianza i valori costituzionali. Inoltre, a questo ventiseiesimo anniversario dalla sua morte, le istituzioni del territorio, pur invitate, hanno ritenuto di non essere presenti neanche per un “saluto”. Questa assenza pesa oggi come allora, ma andiamo avanti con i nostri compagni di viaggio, con le persone che vogliono esserci per testimoniare che la Verità vive.
Foto di Valentina Ersilia Matrascia