Nel 1978 l’Italia si liberò in un sol colpo di 74 anni di storia di trattamento delle persone affette di disturbi psichici, e non solo. Era infatti il 1904 quando il Regno d’Italia si dotò di una legge sugli “alienati e i manicomi”, su proposta di legge di Giovanni Giolitti. I manicomi per tutto divennero l’istituzione preposta al controllo sociale degli emarginati; non solo di chi soffriva di disturbi psichici, ma anche di tutti gli altri soggetti deboli, ritenuti “pericolosi per sé o per gli altri”, o a motivo del loro dare “pubblico scandalo”: anziani, donne e bambini.
Storie terribili che fanno parte di un passato ancora recente. Il 1978 costituisce lo spartiacque. Cosa rimane di queste storie oggi, a quarant’anni dalla legge Basaglia? Che fine ha fatto la cura della malattia mentale, e la cura dei pazienti oggigiorno? È vero che aumentano nella nostra società i disturbi psichici?
Abbiamo intervistato su questi temi un testimone d’eccezione: lo psichiatra Tommaso Losavio, romano classe 1939, che nella sua vita professionale lavorò con Basaglia a Trieste, per poi proseguire a Roma una vita professionale dedicata alla cura delle persone, e a lavorare per il superamento dell’istituzione manicomiale. Proprio Losavio diresse l’ospedale psichiatrico Santa Maria della Pietà a Roma, portandolo finalmente a chiusura. In una società dalle sempre più ardue richieste prestazionali degli individui, e che pertanto rischia ancora una volta di lasciare indietro i più deboli e di creare forte e dolorosa emarginazione, si pone l’urgente domanda su cosa significhi la cura e il prendersi cura.
Losavio, quando cominciò a lavorare nei manicomi?
Nel 1969 ho lasciato l’università dove ricoprivo un ruolo che si chiamava assistente volontario e andai a lavorare al manicomio pubblico di Rieti. Senza grandi difficoltà il direttore mi accolse dicendo «Sei sicuro di voler lavorare in un manicomio?», io dissi, «no non sono sicuro, ci provo». Scoprii lì una psichiatria che non conoscevo, una psichiatria manicomiale.
Cosa vuol dire?
Mi colpì in modo incredibile. Uno stanzone con ammucchiate sessanta, settanta persone, tutte con la divisa grigia e gli zoccoli di legno. Non sapevo dove mettere le mani.
Cosa avete fatto allora?
Cominciammo a fare un lavoro di restituzione minima di soggettività: dare abiti personali, mettere un comodino vicino al letto, organizzare le prime gite. Aprimmo anche un atelier di pittura. Sfortuna volle che il direttore morì improvvisamente e fu sostituito da un vecchio primario, che mise in coma insulinico tutti i giovani con cui stavamo lavorando.
Di cosa si tratta?
È una pratica, tra virgolette terapeutica, tremenda. Molto peggio dell’elettroshock. Consisteva nell’iniettare altissime dosi di insulina al paziente, fino a provocare il coma insulinico, ovvero ipoglicemico; sopravvenivano crisi epilettiche. A quel punto dovevo inserire dal naso un sondino sino allo stomaco per somministrare acqua e zucchero, creando il risveglio. L’indicazione alla cura per me era soltanto legata a un atteggiamento sadico. Una mattina arrivato da Roma, ero in macchina davanti al padiglione. Mi aspettavano tutti i miei ragazzi in coma insulinico, una decina. Mi sono messo a piangere in macchina, ho alzato gli occhi e ho visto attorno a me tutti gli infermieri. Ho capito che non era più possibile continuare, e andai via.
Cosa si pensava di ottenere con questa “terapia” che oggi ci appare essere una “tortura”?
La stessa cosa che si pensa di ottenere con l’elettroshock. L’ipotesi nacque da un’osservazione, a inizio Novecento, che pazienti con disturbi mentali gravi sembrava che migliorassero dopo una crisi epilettica. L’obiettivo era quello di indurre crisi epilettiche. Nella prima metà del Novecento si scoprirono diversi metodologie: induzione di crisi febbrili, il coma insulinico e infine l’elettroshock, invenzione del medico italiano Ugo Cerletti. Franco Basaglia diceva che l’elettroshock è come quando per sintonizzare una radio invece di avere la pazienza di muovere lentamente la manopola della sintonia, le si da un colpo secco: a volte la radio funziona, a volte si sfascia. Oggi è una terapia raramente eseguita in Italia. Sicuramente non ci sono servizi pubblici che la propongono.
Perché si finiva in manicomio prima della legge Basaglia?
La legge era a maglie larghe. Innanzitutto era previsto un atto di polizia, il ricovero coatto. Era legato a un criterio di pericolosità per sé o per gli altri, o per pubblico scandalo. Il pericoloso per gli altri è facilmente intuibile, ed è un marchio che ancora oggi pesa sul problema del malato di mente. Il pericoloso per sé: apparentemente si può pensare subito alle persone a rischio suicidario. Per lo più le persone pericolose per sé sono invece coloro che non sono in grado di badare a se stesse: anziani, bambini. Soggetti deboli. Al Santa Maria della Pietà, manicomio di Roma, c’erano due reparti per i bambini. Ma anche i poveri e i vagabondi rientrano in questa categoria. Nei manicomi c’erano tutte queste categorie. Divenne l’istituzione preposta al controllo sociale, come poi denunciò Franco Basaglia. E poi il pubblico scandalo. Immaginate in quegli anni cosa potesse significare. Una donna non sposata che si comportava in modo da offendere la morale dava pubblico scandalo. Poteva quindi essere fatta un’ordinanza di polizia per internarla in manicomio. Spesso tali ricoveri erano interminabili. Quando nel 1994 diressi la chiusura del Santa Maria della Pietà trovai sessantenni che furono ricoverati da bambini, quando avevano sei, sette anni. E da allora erano rimasti tutta la vita in manicomio.
Come si riuscì a giungere pochi anni dopo il suo inizio lavorativo a una legge così innovativa?
Da anni e da più parti venivano denunziate le condizioni drammatiche nei manicomi. C’erano denunce pubbliche. Inoltre una serie di esperienze andavano dimostrando la possibilità di lavorare coi pazienti in maniera differente, senza i manicomi. Una di queste esperienze, tra le più significative, prima a Gorizia, poi dal 1971 a Trieste, fu quella condotta da Franco Basaglia. L’idea era di smontare tutti i passaggi che creavano l’istituzione manicomiale. Un lavoro di de-istituzionalizzazione. Che non era una semplice de-ospedalizzazione. C’è una bella differenza.
Quale?
De-ospedalizzare significa dimettere una persona e mandarla fuori. De-istituzionalizzare significa smontare pezzo per pezzo tutti i meccanismi su cui l’istituzione si regge: non solo l’oggetto, ma anche il soggetto dell’istituzione stessa; non solo il paziente, ma anche il corpo curante, e infine il corpo sociale. L’istituzione è un prodotto complesso, e se non modifichi i comportamenti del curante e la cultura che ha prodotto quei comportamenti l’istituzione si riproduce. Il lavoro ha portato al disvelamento del meccanismo su cui l’istituzione si creava.
Non mancarono dure critiche a questa impostazione però.
Ci furono degli equivoci. Il primo: «Basaglia e i basagliani dicevano che la malattia mentale non esisteva». È un equivoco grave. Niente di simile fu affermato né da Basaglia né dai suoi collaboratori. Basaglia diceva semmai che con un’operazione filosofica – aveva una preparazione filosofica esistenzialista – la malattia andava messa tra parentesi – fare epoché – per mettere al centro dell’attenzione il malato. Il problema non era quindi curare la malattia, bensì prendersi cura della persona malata. Ricollegandola alla sua storia, al suo ambiente, ai suoi rapporti e alla sua sofferenza. Che non poteva essere ridotta soltanto a malattia.
Altri equivoci?
«Basaglia e i suoi affermano che la malattia mentale è creata dalla società»: è vero che Basaglia chiamava in causa la società, ma in quanto uno dei determinanti della produzione di quella istituzione che è il manicomio. La responsabilità della società non è quella della malattia mentale, ma quella di aver delegato a una certa psichiatria una fascia di soggetti sofferenti – alcuni malati, alcuni no – negando loro qualsiasi diritto. La società per Basaglia è causa non della malattia, bensì dell’istituzionalizzazione della malattia così come avvenne.
Ha lavorato personalmente con Basaglia a Trieste. Che ricordo ne ha?
Sono rimasto lì per cinque anni, fino alla fine del 1979. È stato un periodo significativo della mia vita: matrimonio, prima figlia; abbiamo vissuto in una città che ci ha ospitato con molta tenerezza e molto affetto, e finalmente un lavoro che permetteva di realizzare la possibilità di prendersi cura delle persone. Lavoravamo ventiquattro ore su ventiquattro, con le persone, prendendocene cura. Si capiva la possibilità di smontare quella macchina infernale che era il manicomio. Dopo sono andato a Roma.
Come andò a Roma?
Fu molto difficile. Per nove anni, dal 1980 al 1989, i servizi psichiatrici di diagnosi e cura, previsti dalla nuova legge, furono soltanto tre per 3 milioni di abitanti. Perché nel frattempo bisognava favorire o continuare a favorire le cliniche private che altrimenti sarebbero state penalizzate.
Cosa riusciste a fare?
Ci rimbocchiamo le maniche, eravamo una squadra giovane (ero primario a quarant’anni), e riuscimmo a creare un servizio abbastanza articolato nel territorio. Ciononostante nessuno ascoltava le nostre richieste di ricevere in dotazione degli strumenti di lavoro più adeguati, e il 7 maggio del 1982 abbiamo allora occupato una casa del Comune di Roma in via Baccina. Lì abbiamo portato cinque signore del manicomio. Abbiamo indetto una conferenza stampa, e infine l’amministrazione in Campidoglio con un provvedimento urgente ha assegnato l’appartamento al nostro servizio.
Cosa significa la legge 180 per il malato psichiatrico di oggi?
Non c’è più oggi un paziente psichiatrico deprivato dei suoi diritti. L’internamento in manicomio prevedeva la perdita dei diritti civili, della patria podestà, non si poteva votare, né avere un passaporto. C’è inoltre un processo di modificazione dello stereotipo della malattia mentale. Il manicomio rimandava il doppio della malattia: l’immagine della persona aliena; non a caso si parlava della “cura degli alienati”, della persona stravagante, e pericolosa. Questo è notevolmente cambiato.
È vero che le sofferenze mentali stanno cambiando? La vita delle metropoli ci rende più depressi delle generazioni passate?
Cambia il modo in cui si manifesta la sofferenza. Per capirci faccio un esempio. La psichiatrica moderna è nata sul modello dell’isteria. L’isteria era una malattia di genere. Nasce con Jean-Martin Charcot nell’Ottocento, e Sigmund Freud inizia la sua storia sullo studio dell’isteria. Ebbene, oggi l’isteria non c’è più. Dunque cosa è importante: la malattia o la sofferenza? Se la sofferenza femminile si manifestava prevalentemente col corpo e con la crisi isterica, oggi come si manifesta? Con disturbi del comportamento alimentare. Ancora una volta col corpo. Ma probabilmente è la stessa sofferenza. Cambia la malattia? Cambia l’etichetta che noi diamo a quella sofferenza. Dobbiamo interessarci a ciò che c’è sotto, non all’etichetta.
Perché oggi dunque è importante ricordare il 1978 e la legge Basaglia?
Il lavoro di de-istituzionalizzazione è continuo, ed è senza fine. Anche perché ci sono talvolta dei veri e propri passi indietro. Se si rompono alcuni collegamenti sociali, la società va in crisi e si torna ad assistere ad aspetti egoistici e personalistici; si agitano fantasmi di pericoli imminenti, in cui si individuano i soggetti “pericolosi”, tra cui gli stranieri, gli zingari (i campi da eliminare). Si ripropongono modelli di ricerca del capro espiatorio della nostra infelicità, e del nostro vivere non bene. La ricerca dei capri espiatori porta sempre a colpire i più deboli e vulnerabili… e poi sì che le cose diventano difficili e pericolose.
[intervista a cura di Claudio Paravati]