Un giorno in pretura

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Come dimenticare il memorabile film del 1953 di Steno con un cast stellare al cui interno brillavano nomi come Peppino De Filippo, Walter Chiari, Silvana Pampanini e l’indimenticabile Alberto Sordi. E come dimenticarne la trama che sebbene celata da quella ironia tipica della commedia italiana nascondeva invece una morale più volte scandagliata nella storia della giustizia ovvero quella della integerrimità dei magistrati che spesso si trovano a scontrarsi con la vita vera che in taluni casi fa a pugni con la durezza del diritto.

Eppure dal 1953 ad oggi qualcosa è cambiato e a trascorrere oggi un giorno in pretura, pur senza alcun capo d’accusa pendente, di quella ironia scanzonata e di quel moralismo sincero non sembra esserne rimasta neanche l’ombra.

Innanzitutto si è persa, direi quasi estinta se non per i pochi esemplari rimasti, l’idea che il Tribunale sia un luogo dove andare vestiti se non in maniera elegante quanto meno decente. Si dia il caso che, nel novero della quantità informe di gente che transita, difficilmente si possa distinguere l’avvocato dall’imputato, il giudice dal condannato. Gli uomini si dividono in due categorie: baldi e giovanissimi avvocati rampanti dell’ultima ora che sfilano come fosse una passerella di Gucci a Cannes con un pantalone seconda pelle al quale omettono il calzino lasciando poco all’immaginazione rispetto ad una caviglia depilata da fare invidia alle sorelle Kessler. Si stringono il torace muscoloso in camicie avvitate alle quali aggiungono una giacca che sembra rubata ad un bambino. E’ ancora ignoto il motivo per cui l’eleganza del XXI secolo è strettamente legata alla taglia; più piccola è più ci si sente eleganti. Chissà la madre di Lucio Dalla con quel vestito ogni giorno più corto come avrebbe potuto sentirsi chic in questa epoca slim.

Poi ci sono gli uomini sciatti, quelli che hanno abbandonato del tutto l’idea della cravatta e accettano la giacca solo se destrutturata; senza spalline, senza pence, senza spacchi, senza forma… praticamente non è una giacca ma solo un filosofico segnale post moderno, quasi alternativo, diciamo futurista.

Superato lo straniamento estatico che questa sfilata indefinita suscita ci si concentra inevitabilmente sulla mestizia del luogo. Grigio, triste, uguale a se stesso, rumoroso ma senza entusiasmo, confusamente affollato, tremendamente solitario.

Uomini e donne indistintamente, eleganti e non, corrono senza meta o forse con una meta definita ma incerta, muniti di carpette e borsa in pelle. Non hanno identità personale ma si vanno chiamando “collega” a destra e “collega” a sinistra. Chi si trova di passaggio in un tribunale non può far altro che restarne estasiato, sembra un trattato di sociologia in movimento, un godimento per le elucubrazioni freudiane.

Ma ciò che incanta di più in un tribunale sono i cancelleri. Uomini per lo più piccoli, tendenzialmente arrabbiati con il mondo, vivono silenziosamente la loro esistenza all’interno di anguste stanze solitarie piene di carpette azzurre e verdi, non sorridono mai, rispettano la legge ma lamentano che la legge non rispetta loro, cercano pavidamente di scaricare ogni responsabilità e fanno attendere perché l’attesa è desiderio e forse, freudianamente, si augurerebbero di essere desiderati.

Sono loro la macchina amministrativa di una giustizia che notoriamente non va, una giustizia che non ironizza mai, una giustizia lenta e spesso ingiusta, una giustizia che tuona dinanzi agli scandali e tace quando dovrebbe urlare la verità. Una giustizia talvolta asservita al potere giornalistico, preda di sciacallaggio e facili deduzioni. Una giustizia alla quale probabilmente si è rotto l’ago della bilancia e alla quale qualcuno ha strappato il sorriso, unica arma vincente contro ogni male.

Abbandonato l’alveare dei cancellieri si passa innanzi alla stanza del Presidente del Tribunale e li, improvvisamente il torpore plumbeo si trasforma in vita, c’è una confusione che sembra prossima ad un sagra di paese e gli avvocati affaccendati si confondono in un mischia molto più consistente di gente altra.

E’ normale chiedere al primo cancelliere frettoloso che passa cosa stia facendo quella massa indefinita ed è triste che lo stesso, senza neanche alzare gli occhi da terra risponda scontroso: “si separano!”


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