Cinquant’anni senza Robert Kennedy, in un’America straziata dal trumpismo e irriconoscibile rispetto all’utopia democratica del dopoguerra che segnò gli anni Sessanta e si infranse contro la ferma volontà conservatrice di non vedere un altro Kennedy alla Casa Bianca.
Cinquant’anni da un sogno spezzato e mai più ricomposto, se non parzialmente con Obama, in un Paese che si è pervicacemente rifiutato di cambiare ed è stato, infine, travolto dalle proprie contraddizioni e dalla propria incapacità di rinnovarsi nel contesto di una modernità impazzita.
Qualcuno obietterà che gli Stati Uniti sono all’avanguardia per tutto ciò che concerne la tecnologia e lo sviluppo industriale, il che è innegabile, ma se si vuole comprendere l’autentico pensiero kennediano bisogna domandarsi: a che prezzo?
Fu proprio Bob Kennedy, infatti, a pronunciare, tre mesi prima di essere assassinato, un memorabile discorso all’Università del Kansas contro il feticcio del PIL, asserendo senza remore che esso può misurare tutto, tranne ciò che rende la vita degna di essere vissuta. E forse è anche per questo, soprattutto per questo, che venne assassinato a Los Angeles, nella notte fra il 5 e il 6 giugno del 1968, dopo aver vinto le primarie in California e quando ormai era lanciato verso la presidenza, con ottime probabilità di sconfiggere per la seconda volta il repubblicano Nixon, otto anni dopo suo fratello John.
Se dei tre Kennedy John è stato il potere, condito dal suo fascino pressoché inarrivabile, non c’è dubbio che Ted abbia incarnato la lungimiranza e la battaglia per una società migliore; tuttavia, né l’uno né l’altro avrebbero conquistato il mito che oggi li caratterizza se alle loro spalle non avessero avuto la visione, a tratti quasi onirica, di Bob.
Bob Kennedy è stato l’incarnazione della Nuova Frontiera, un intellettuale di grandissimo valore prima ancora che un politico, il ministro della Giustizia che, durante l’amministrazione di suo fratello, si batté al fianco dei neri e delle minoranze, l’arci-rivale di Johnson che, non a caso, costrinse di fatto a non ricandidarsi, e infine il modello per una generazione che aveva ancora la forza di credere in qualcosa e di sperare in un avvenire migliore.
Robert Kennedy è inseparabile dagli anni Sessanta, dalla vivacità di una Nazione che stava per andare sulla luna, dalle lotte del reverendo King per i diritti civili e dal lento cammino verso l’emancipazione degli afroamericani che quarant’anni dopo il suo assassinio avrebbe condotto Obama alla Casa Bianca.
Non sappiamo come sarebbe stata la sua vita, cosa avrebbe fatto e che genere di presidente sarebbe stato se non fosse stato assassinato a soli quarantadue anni, in una notte di tarda primavera, mentre stava per giungere al culmine di una carriera straordinaria e si apprestava a scrivere alcune importanti pagine della nostra storia recente. Ciò di cui abbiamo la certezza è quanto ci sia mancata una figura come la sua in questi cinquant’anni di cedimenti e barbarie, di derive liberiste e di progressiva scomparsa dei diritti umani e della centralità stessa della persona nel dibattito pubblico.
Robert Kennedy, dei tre fratelli, era senz’altro il più aperto, il più appassionato, quello in cui le folle si riconoscevano maggiormente, un perfetto connubio fra élite e popolo, fra cultura e vicinanza ai problemi della gente comune, fra oratoria di alto livello e concretezza nei gesti e nelle scelte.
Al pari di Roosevelt, aveva in mente un’altra idea di mondo e, proprio come lui, purtroppo, non è riuscito a realizzare fino in fondo il proprio progetto, lasciando l’America e tutti noi in preda alla rabbia e a innumerevoli rimpianti.
Eppure la sua analisi, la sua vivacità intellettuale, il suo sorriso, la sua giovialità e il suo coraggio dai tratti rivoluzionari vivono ancora in noi, resistono e sono alla base dei molti movimenti giovanili che, negli Stati Uniti e non solo, si stanno attrezzando per provare a sconfiggere l’egemonia conservatrice che si è impadronita del pianeta da almeno quattro decenni. A dimostrazione di quanto sia ancora lunga la strada che Bobby ci ha indicato, di quanto sia irta di ostacoli e di quanto sia necessario percorrerla insieme per provare a raggiungere la meta finale di una società più giusta e accogliente.
Citando George Bernard Show, Kennedy diceva: “Ci sono coloro che guardano le cose come sono, e si chiedono perché… Io sogno cose che non ci sono mai state, e mi chiedo perché no”.
Nessuno, nel fatidico ’68, avrebbe scommesso un centesimo sul fatto che un giorno un nero sarebbe riuscito a diventare presidente, ma è successo. E chissà quanti altri muri verranno abbattuti e quante altre chimere diventeranno realtà in futuro! L’importante, soprattutto quando tutto sembra essere perduto, è continuare a combattere per le proprie idee e non arrendersi mai: questa è stata la lezione di Robert Francis Kennedy e per questo, mezzo secolo dopo, gli rendiamo un omaggio colmo di gratitudine.
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