Esistono giardini incantati che molti di noi hanno intorno a sé ma non vedono, non distinguono, non ne percepiscono i suoni, i sussurri. Eppure quando all’improvviso ci accorgiamo della loro esistenza la nostra vita cambia, l’aria i riempie di presenze che non credevamo possibili.
“C’era una volta un giardino ai piedi di una collina,
dietro un muro di pietra. Una rete verde di ferro
lo circondava”.
E dentro cosa c’era?
“Vi fiorivano d’estate dalie
gialle e cremisi. Ibiscus bianchi e azzurri,
un loto, un’acacia, un melo verde, un fico
spandevano sul terreno morbido la loro ombra leggera.”
E aveva un suono quel giardino:
“Il vento recava rintocchi di campanili lontani,
abbaii, cinguettii come musiche accordate.”
In quel giardino si depositano memorie leggere come trine, che quasi si scompongono a toccarle, se non si scelgono con attenzione le parole. Come i sogni che svaniscono all’alba e se non li afferri in tempo non si lasciano più catturare, risucchiati nel buio da cui provengono, o smaterializzati dalla luce in cui si sono avventurati.
In quel giardino fiorisce la poesia.
“In quel giardino, d’estate, tornava un uomo
che da sempre, il suo sempre, cercava parole esatte
contro il rumore, e là si illudeva di trovarle
e ne godeva come il dono inatteso di un paradiso”.
Per chi provasse la curiosità di conoscere l’indirizzo – magari per cercare di rubarne il segreto – si trova a Sant’Arsenio, in Campania, nel paese del salernitano in cui è nato il poeta Elio Pecora, e cresciuto fino al momento di allontanarsene, di lasciare la casa e la madre, per correre lontano, in Germania, e poi a Roma incontro al proprio destino. Ma pur sempre tornando, a ogni nuova estate, a cercare l’innocenza e la fonte in quel suo hortus conclusus, come lo denominavano i latini, il magico recinto del raccoglimento.
Lo specchio, celebre collana poetica di Mondadori, ne pubblica la più recente raccolta di versi che porta in esergo un’affermazione di Empedocle, filosofo greco di Agrigento del V secolo avanti Cristo:
«Il sangue che sta attorno al cuore è il pensiero degli uomini».
Gli esseri umani dunque pensano col cuore prima che con la mente. Il mondo della scrittura poetica apparterrebbe più ai fantasmi che al ragionamento, essendo pur vero che ad ammaliarci è la sua musica, come ci insegna Orfeo il cui mito è così caro all’autore; e se il canto ci induce a riflettere è perché cediamo alla sua seduzione.
Il libro (pp.149, € 18) si intitola Rifrazioni forse perché è imbevuto di luce e dunque di ombre traslucide che appaiono quando meno te lo aspetti, cagionando misteriosi trasalimenti:
“A volte spostano una sedia, un libro
un cuscino ricamato; a volte
ti precedono in una strada affollata
e nemmeno si voltano.”
Seguendo il poeta nel suo divagare, forse riusciremo a rialzare “Le saracinesche arrugginite dell’ansia”, e a inoltrarci in quel chiostro protetto in cui per qualche momento – o per sempre – ci pare di riuscire a capire. Ecco perché Pecora premette alla sezione intitolata Andantino una toccante riflessione di Ludwig Wittgenstein: “La vita di conoscenza è la vita che è felice nonostante le miserie del mondo”.
La nostra unica missione è comprendere, “fatti non foste a viver come bruchi”; e possibilmente imitare il poeta che “Sceglie parole come un tubero o un seme da interrare”.
Accade così che, in tale visione, le liriche di Pecora si dipanano in un racconto, in cui trovano posto bagliori diversi, intimità svelate, tracce ancora umide di vita vissuta:
“Può una madre essere figlia del figlio
se si confida all’infante, lo chiama
nelle sue malinconie, adolescente lo cerca
nelle palpitazioni notturne e attendono insieme
che il polso torni tranquillo
sotto gli angeli che sorridono in volo dal soffitto.”
Allo stesso modo riaffiora il sembiante delle persone amiche, dei poeti di un pantheon personale, che l’autore ha conosciuto e amato: «L’aria è piena di anime», avverte Pitagora.
Compaiono Luciano Erba “il poeta del tramviere e dell’ippopotamo”; Dario Bellezza: “Non è stato facile tenerlo per amico/ e non per la malvagità recitata,/ per le telefonate notturne, per la corte/ dei ragazzetti ladri e di femmine bugiarde/; Elsa Morante: “l’amica tenera che poteva mutarsi/ nella più spietata nemica/; Aldo Palazzeschi: “Per l’ascensore c’erano due gradini/ e in ciabatte mandava baci/ sulla punta della dita./; Amelia Rosselli: “Era nella sua voce d’organo,/ in quel viluppo di note alte, cupe, distese,/ e nei farfugli, negli incagli,/ la sua incomparabile musica/; Elsa De Giorgi: “La Bellezza aveva colorato di indaco luminoso i suoi occhi/; J.R. Wilcock dal: “sorriso sprezzante, lo stesso che diede/ a Caifa nel Vangelo pasoliniano./; Francesca Sanvitale a cui: “lo sdegno/ le incupiva il miele degli occhi./; Sandro Penna: “Ora un silenzio quieto l’accompagna/ e a te, per salutarlo, basta uno solo dei suoi versi chiari./
Ma non c’è da rattristarsi, ci ammonisce il poeta, citando in greco quel verso di Saffo, Εσπερε, πάντα φέρεις , che contiene un’irrefrenabile slancio di vita; quando, sul far della sera, si formava al lume delle fiaccole la processione nuziale intonando per la sposa il canto vespertino: “Espero, tu riporti ogni cosa che Aurora lucente disperse:/ riporti la pecora, riporti la capra, riporti via la figlia alla madre”.
Oltre il giardino c’è il mondo, con i suoi colori, i suoi rumori, i suoi vaneggiamenti.
“Intanto nei giovani vacilla la speranza,
nelle chiese echeggiano morali da pulpiti sconnessi,
l’illusione è un seme infradiciato nell’inverno protratto,
il futuro una marea fangosa che avanza.”
Al di là del muro, squarci di vita:
Il biondo pallido, esangue,
quando ha fittato la casa prospiciente il giardino,
ha solo accennato
alla sorella morta a dieci anni
per i veleni ci Ƈernobyl’.
I nuovi scenari:
“Dentro un’età affollata di dèi,
atteggiati in giacche striminzite,
Ermes che non reca più messaggi
seguita a istruire – e con che boria! –
la truppa fittissima dei ladri.”
L’inseguimento inesausto di una fatale fata morgana:
“Venere non è ancora tramontata
e già ai semafori
sfrecciano al verde come bestie cieche”
La distruzione degli altari:
“Quest’uomo che non crede più a nulla, a nulla più crede
(nemmeno al denaro che, se lo distrae e lo contenta,
non basta a guarirlo dal desiderio e dall’ansia).
Da tanto non ha più un altare né un dio da pregare:
quando sente insicura la mente, e breve e malata
la sua ora.”
All’orizzonte già distinguibili in una nuvola di polvere le armate del disordine:
“L’avo di tutti, il più temuto, Caos,
avanza a perdifiato, a capo chino.”
Magari non è proprio così, come a me sembra. La poesia si sa, è di tutti e di nessuno. Ciascuno rispecchia se stesso nelle figure evocate dal canto. Rifrazioni è anche un racconto visivo, lo scorrere di una pellicola, e di una colonna sonora che ha la voce di Orfeo, languorosa promessa di nepente:
“Elena, la più bella, proprio lei causa di ogni rovina,
versa nelle coppe “il farmaco che placa
furore e dolore e fa dimenticare ogni pena”.