Prima vennero a prendere gli zingari

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Gli annunci del nostro Ministro dell’interno sull’intenzione di procedere al censimento degli zingari, con la precisazione che gli italiani “purtroppo” ce li dobbiamo tenere, fra i tanti commenti che hanno suscitato hanno avuto il merito di far riemergere dall’oblio una bella poesia di Martin Niemoller, che ci ricorda i pericoli dell’indifferenza di fronte al progressivo degrado di una società verso la dittatura.

Prima di tutto vennero a prendere gli zingari, e fui contento, perché rubacchiavano. Poi vennero a prendere gli ebrei, e stetti zitto, perché mi stavano antipatici. Poi vennero a prendere gli omosessuali, e fui sollevato, perché mi erano fastidiosi. Poi vennero a prendere i comunisti, e io non dissi niente, perché non ero comunista. Un giorno vennero a prendere me, e non c’era rimasto nessuno a protestare”. Martin Niemoller, giovanissimo, fu comandante di U Boot durante la prima guerra mondiale. A seguito della guerra, maturò un profondo disgusto per la violenza, divenne un pastore protestante ed operò una scelta di vita rivolta alla pace, alla giustizia ed alla fratellanza. Nel 1937 fu arrestato dalla Gestapo su diretto ordine di Adolf Hitler, infuriato per un suo sermone, ed internato a Dachau.

Oggi per fortuna viviamo in tempi meno oscuri perché siamo protetti da un ordinamento democratico che, secondo i suoi critici, presenta lo svantaggio di attribuire al governo un potere “debole”, a fronte di garanzie “forti”. Dal punto di vista politico, il censimento di un segmento della popolazione, considerata pericolosa o indesiderabile, non rappresenta una novità nel nostro paese. Fu disciplinato dal Regio decreto 5 settembre 1938 n. 1521, che istituì presso il Ministero dell’interno la Direzione Generale per la Demografia e la razza con il compito di mantenere e aggiornare il registro degli ebrei. Com’è noto il censimento degli ebrei si rivelò particolarmente utile per i nazisti che, dopo l’8 settembre, non dovettero fare alcuna fatica per scovare gli ebrei italiani. Un censimento della popolazione rom in Italia fu tentato con un decreto del maggio 2008 dall’allora ministro dell’interno Roberto Maroni: si parlò di identificazione, fotosegnalazione e rilievo delle impronte digitali. Inutile dire che il TAR ed il Consiglio di Stato annullarono il decreto per il suo carattere palesemente discriminatorio ed illegale.

Anche quest’annuncio di Salvini, come tanti altri, si dimostrerà impraticabile, perché “purtroppo” c’è la Costituzione, però quello che a noi interessa è l’aspetto educativo.

Le dichiarazioni dei leaders politici, specialmente quando rivestono ruoli istituzionali, hanno sempre un valore propedeutico, indicano dei modelli culturali, creano un ambiente psicologico e morale. In altre parole queste politiche “insegnano” il disprezzo dei diritti fondamentali delle persone, l’indifferenza verso il destino degli “altri”, e  quindi costituiscono educazione alla violenza. Perché la violenza si fonda sulla negazione dell’altro come proprio simile. Poiché la politica dovrebbe dare delle risposte ai problemi della nostra vita, qui ci troviamo di fronte ad una elaborazione paranoica del lutto. Il lutto sociale, prodotto da 10 anni di crisi economica, che ha seminato disoccupazione e disperazione, viene elaborato attribuendo la “colpa” ai gruppi sociali più svantaggiati, viene diffusa l’illusione che sopprimendo i diritti di determinate categorie di persone noi potremmo stare meglio. E’ questo il senso dello slogan: prima gli italiani.
Per contrastare questa politica non basta l’indignazione (che pure è sacrosanta): occorre una politica diversa che, anziché organizzare la paura, organizzi la speranza: cioè la capacità di una comunità di riconoscersi  in un orizzonte comune nel quale ci sia dignità, libertà, pace e giustizia.
Per tutti.

di Domenico Gallo edito dal Quotidiano del Sud


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