Peppino Basile è morto dieci anni fa dinanzi alla porta di casa sua, a Ugento (Lecce) dilaniato da decine di coltellate mentre chiedeva aiuto ai suoi vicini di casa, incriminati e arrestati ingiustamente per la sua morte. Un povero anziano cardiopatico e zoppo e un ragazzone di 17 anni che ha trascorso il suo diciottesimo anno in galera.
Sono stati assolti con formula piena ma la giustizia non ha fatto il suo corso.
Peppino era consigliere comunale e provinciale dell’Italia dei Valori: all’opposizione ad Ugento e tra le fila della maggioranza nel Consiglio provinciale, presieduto dal senatore Giovanni Pellegrino (già Commissione parlamentare stragi).
Peppino era un sanguigno e un rompicoglioni. Studiava la carte ed era un segugio che non mollava l’osso se il suo intuito fiutava la puzza della corruzione e dei maneggi sotto banco.
Era un whistleblower del Tacco d’Italia, una “fonte qualificata” e segreta del nostro giornale, grazie alla cui collaborazione abbiamo realizzato diverse inchieste, denunciando speculazioni edilizie in zone sottoposte a vincolo ambientale e paesaggistico, cattiva gestione dei rifiuti, del demanio pubblico, dei parchi. Era una fonte d’informazione preziosa come non se ne trovano più: perfino il parlamento europeo ha approvato una risoluzione per chiedere alla Commissione di studiare dei provvedimenti che aiutino i whistleblower a contattare segretamente e in sicurezza i giornalisti, perché, al pari dei giornalisti, rischiano la vita facendo entrambi il loro dovere, di lavoratori gli uni, di cittadini gli altri.
In italiano, segnala l’Accademia della Crusca, non esiste ancora un termine adeguato che traduca whistleblower: “gola profonda” non rende l’idea, perché ha un’accezione dispregiativa di ”spia”. E manca il termine, dice l’Accademia, perché non esiste un substrato culturale che renda necessario far corrispondere ad un preciso status il termine corrispondente. Non c’è la parola perché il whistleblower, cioè la “fonte qualificata e segreta”, il cittadino che è testimone di un malaffare e si sente in dovere di renderlo pubblico, collaborando con l’informazione, non esiste in Italia.
Invece Peppino, non solo era una fonte qualificata, ma riconosceva nell’informazione una delle gambe della Democrazia e un grimaldello per accrescerne il livello, tutelando il bene comune.
Abbiamo denunciato incessantemente la cattiva conduzione delle indagini, abbiamo ripercorso tutte le piste seguite da Peppino, abbiamo sentito tanti testimoni, abbiamo raccolto in un libro e diversi numeri del giornale le denunce di Peppino, fatte con il Tacco.
Abbiamo anche creato una “comunità”, cercando di incoraggiare le persone a denunciare, anche in forma anonima, utilizzando la piattaforma on line messa a disposizione del Tacco. Ma piano piano le fila di chi gridava giustizia si sono sfilacciate (un posticino di qua, un incaricuzzo di là); don Stefano Rocca, che chiedeva di rompere il muro di omertà con processioni e omelie, è stato trasferito in isolamento, facendo montare artatamente uno scandalo senza la materia prima, cioè il reato.
Peppino Basile è stato ucciso dalla mano di molti: come per Renata Fonte, prima vittima innocente di mafia nel Salento, se mai si troveranno gli esecutori, (primo livello) si dovrà poi risalire ai mandanti (secondo livello) e ancora più in alto, ad un terzo livello di chi ha creato il contesto perché mandanti ed esecutori agissero.
Peppino è una vittima innocente di mafia. Come per Renata Fonte nei primi anni dopo la sua morte, di Peppino non si parla e se si parla lo si fa sottovoce e con imbarazzo.
Ma è un silenzio pesante, dove la voce di Peppino Basile riecheggia ancora per le strade e le piazze del basso Salento: “Dovrete passare sul mio cadavere”, gridò in uno dei suoi ultimi comizi. E così è stato. La voce di Peppino riecheggia sul mega resort costruito a due passi dal mare, grazie a perizie false e ad autorizzazioni che non si potevano rilasciare, grazie ad indagini della procura aperte e poi fatte prescrivere. Riecheggia sui lidi gestiti da prestanomi di mafiosi o direttamente dai figli, sui parcheggi gestiti dagli amici dei mafiosi, sulle piazze di spaccio di coca nei lidi più frequentati. Riecheggia sulle discariche abusive e su quelle autorizzate, dove rifiuti tossici delle industrie del Nord sono stati smaltiti dalla mafia del Sud. Sugli appalti comunali fatti coi magheggi e assegnati a chi presta la sua arte per gestire l’arte, ma soprattutto il potere, garantendo l’omertà. Peppino Basile era indigesto da vivo, figuriamoci da morto.
Perché nel silenzio di tutte le voci, la sua voce riecheggia ancora più forte.
Non servono messe e non servono corone di fiori deposte sulla tomba, in un tentativo di ricondurre la sua morte alla banalità di una morte qualunque. Perché la sua morte è stato il sacrificio di chi chiedeva verità e giustizia, nella sua pratica quotidiana.
E solo la verità e la giustizia devono rendergli onore.
LEGGI QUI tutte le indagini del Tacco d’Italia sulla morte di Peppino Basile:
LEGGI QUI TUTTE LE INDAGINI DEL TACCO D’ITALIA SULLA MORTE DI PEPPINO BASILE