Cento anni dalla nascita di Franco Modigliani, l’economista rivoluzionario che tanto ha insegnato ai suoi allievi e tanto ha lasciato in eredità ai suoi successori, a cominciare dal concetto di economia come arte, come un qualcosa di creativo, di vivo, una materia da plasmare con cura e alla quale infondere un’anima e diremmo quasi dei sentimenti.
Modigliani e l’economia come passione inestinguibile, come scienza e non solo, una forma di ribellione in grado di contrastare la mera aridità delle cifre.
Di famiglia ebraica, fu costretto a riparare negli Stati Uniti poco dopo la laurea, per scampare alle Leggi razziali fasciste e alla barbarie di un’Europa ormai inesorabilmente avviata verso un conflitto militare di proporzioni devastanti.
Divenuto cittadino statunitense nel ’46, fu uno degli alfieri del pensiero neo-keynesiano, redigendo, insieme a Merton Miller, la Teoria di Modigliani-Miller della finanza aziendale, sostenendo che, in assenza di tasse, costi di fallimento e asimmetrie informative, ossia in un mercato efficiente, il valore di un’impresa non cambia, sia che essa si finanzi tramite l’emissione di azioni, ossia sul mercato, sia che essa faccia ricorso all’emissione di obbligazioni, ossia tramite il debito.
Capace di ibridare la cultura economica europea e quella americana, vinse il Nobel nel 1985, unico italiano a riuscire in quest’impresa, andandosene il 25 settembre 2003 all’età di ottantacinque anni.
Memorabile lo sfogo che ebbe con lui Indro Montanelli, convinto, provocatoriamente, che il nostro Paese fosse riuscito a corrompere persino la corruzione e che fosse, pertanto, irrecuperabile sul piano etico e delle scarse virtù civiche che ci caratterizzano. Una disamina amara, non certo infondata, durissima ma significativa e ricca di valori, un atto d’amore per una Nazione straziata da un male assoluto che ha finito col divorarla e inibirne le potenzialità di crescita.
E qui vengo a Pierre Carniti, diverso, diversissimo da Modigliani per storia, cultura e attività nella vita ma accomunato a lui dal valore della dignità umana inteso come bussola e posto al centro della propria azione civile.
Carniti è stato, insieme a Lama e Benvenuto, il simbolo di un sindacato volto al progresso e allo sviluppo equo e solidale del Paese. È stato il simbolo della lotta, quasi resistenziale, contro ogni forma di fascismo e di populismo. È stato l’emblema dell’emancipazione dei metalmeccanici, della loro crescita come categoria e come individui, del loro lento e progressivo conquistarsi uno spazio e un a centralità all’interno del dibattito pubblico.
Carniti è stato anche un autorevole sostenitore dell’unità sindacale, persino quando ha dovuto compiere drammatici strappi, ad esempio sulla Scala mobile nell’84, ritenendo e dicendo apertamente che un sindacato diviso sarebbe stato un male per i lavoratori e per la società nel suo insieme.
Se dovessimo tracciare un paragone storico, non esiteremmo a dire che il suo maestro ideale è stato Achille Grandi, punto di riferimento di quel sindacalismo cattolico pacato ma fermo, mai domo, mai disposto ad arrendersi, in battaglia per tutta la vita, anche dopo aver terminato il proprio mandato e persino dopo essersi ritirati.
Carniti non ha mai smesso di esporre la propria visione della società e del mondo, non si è mai astratto dalla lotta, non è mai venuto meno ai suoi doveri di cittadino, non ha mai rinunciato a esprimere le proprie idee e non si è mai preoccupato di essere popolare, pur essendo stato amatissimo dalla propria base e stimato da chiunque abbia avuto la fortuna di averlo come interlocutore.
Pierre Carnti, un uomo d’altri tempi, protagonista di altre stagioni ma ancora attuale, modernissimo, diremmo quasi universale.
Se ne è andato all’età di ottantuno anni e a noi non rimane che la solitudine di un addio e un senso di vuoto e di smarrimento, una sensazione di impotenza che ci pervade e difficilmente ci abbandonerà a breve.
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