“La terra dell’abbastanza” è il film d’esordio dei fratelli Damiano e Fabio D’Innocenzo che, oltre a dirigerlo, ne hanno scritto anche il soggetto e curato la sceneggiatura.
Il film è stato presentato nella sezione “Panorama” al Festival di Berlino 2018, ottenendo un vivo interesse.
La vicenda si addentra nell’atmosfera della periferia romana con una crudezza diretta e priva di orpelli giustificatori e/o consolatori.
Siamo davanti alla storia di due ragazzi come tanti, in un’età in cui la complicità della giovinezza e la solidarietà dell’amicizia sono valori fondativi della vita, insieme alla forza delle passioni e delle emozioni. Ci troviamo all’interno di una periferia romana, quella di Tor Bella Monaca, che ricorda quella piatta, metallica, assolata, marginale e isolata dei film di Pasolini, la cui atmosfera abbiamo recentemente riscoperto anche in altre pellicole come ad esempio “Dogman” di Garrone o “Fortunata”, ambientato a Tor Pignattara.
Lo svolgersi della giornata passa attraverso le scadenze segnate dal bisogno, dalla difficoltà e da una convivenza normale con la devianza e l’illegalità diffusa.
I nostri due giovani protagonisti Mirko e Manolo, amici/fratelli fin dalle elementari, vivono in un quartiere periferico di Roma e frequentano la scuola alberghiera, desiderando di poter fare successivamente i bartender. Il loro legame è importante e fa da argine all’insicurezza derivante della provenienza da famiglie letteralmente disastrate e divise. Manolo ha come riferimento un padre (Max Tortora) ai margini della criminalità, mentre Mirko vive insieme alla madre e alla figlia piccola del suo nuovo compagno, troppo spesso assente e “altrove”.
Le prime sequenze ci mostrano i due ragazzi, a bordo della propria automobile, ridere e scherzare nella loro complice gioventù; ma, subito dopo, il caso e il dramma s’insinueranno prepotentemente nella loro vita.
In un attimo, si rendono conto di aver investito un uomo e scappano senza prestargli soccorso.
È da questo momento che inizia la parte più interessante del film che, con la mano abile dei due registi esordienti, ci mostra come, in assenza di una forte struttura culturale personale derivante anche dalla presenza di solidi rapporti sociali e familiari, si possa scivolare facilmente in una rimozione del senso di colpa e di responsabilità, cercando, al contrario, di cogliere tutti i vantaggi e le occasioni possibili che si presentano per migliorare la propria condizione.
L’opera prima dei fratelli D’innocenzo è, tuttavia, spietata e non concede nulla né ai protagonisti della storia, né agli spettatori.
I due ragazzi, dopo l’incidente, chiedono aiuto al padre di Manolo su come comportarsi e questi, dopo aver scoperto che la persona investita era un “infame” già condannato a morte dalla potente famiglia Pantano, gli spiega che in realtà “hanno davanti l’occasione d’oro della vita. “Avete svoltato” gli dice.
Grazie a quella fortuita morte, causata dall’incidente automobilistico, Mirko e Manolo si sono guadagnati il diritto di entrare nel clan dei Pantano e , dopo un percorso costellato da droga, sesso, soldi e potere, assumono presto il ruolo di killer, ottenendo alla loro giovane età un rispetto e del denaro che non avevano mai avuto.
“Con questo film volevamo raccontare com’è maledettamente facile assuefarsi al male”, dicono i D’Innocenzo: “In un mondo in cui la sofferenza è sinonimo di debolezza, i nostri protagonisti si spingeranno oltre il limite della sopportazione: vedere fin dove si può fingere di non sentire nulla”. Tutto questo tuttavia non è premiante. In questo, il messaggio del film è chiaro: “Non c’è tranquillità, né vera piacevolezza, né alcuna costruzione di un vero benessere o del percorso di realizzazione di sé stessi all’interno del crimine, che è sempre lì, a portata di mano, come possibile soluzione nei confronti delle difficoltà della vita”.
Le difficoltà, invece, rimangono ed anzi aumentano fino ad annullarti, portandoti al tragico epilogo dell’esistenza.
La stessa amicizia fra i due ragazzi, che era forse uno delle poche ricchezze di cui disponevano, verrà frantumata nel corso degli avvenimenti; mentre il tentativo di riscatto personale di Mirko, che stava crescendo solo nella rivalutazione del rapporto con la propria madre, verrà spezzato.
Un’opera prima senz’altro interessante e ben realizzata .
Ottima l’interpretazione dei due protagonisti: Andrea Carpenzano (Manolo) e Matteo Olivetti (Mirko), spontanei e credibili. Degna di nota anche quella di Milena Mancini (Alessia) nel complesso ruolo della madre di Mirko, costretta a condividere nel suo animo gli slanci d’amore verso il figlio con l’altrettanto necessaria furia violenta. Pregevole la partecipazione di Max Tortora e Luca Zingaretti.