In queste settimane sta ulteriormente emergendo la gravità dell’ultima delle trovate dell’amministrazione Trump: separare le famiglie di migranti al confine, sperando di ottenere un effetto deterrente sui centroamericani e messicani che tentano di emigrare negli Stati Uniti.
I numeri parlano da soli: dal 29 aprile al 31 maggio di quest’anno, 1995 minori sono stati separati da 1940 familiari adulti con i quali viaggiavano. Un funzionario pubblico ha dichiarato in anonimato a Reuters che il numero di separazioni familiari è aumentato moltissimo nelle ultime settimane, a causa delle nuove pratiche dell’amministrazione Trump, che con il tempo si vanno consolidando.
Il 23 maggio Richard Hudson, vicecapo del Operations Program del Customs and Border Protection, dinanzi alla sottocommissione su “Border Security and Immigration”, ha dichiarato che soltanto dal 7 al 21 maggio sono stati separati 658 minori dai 638 adulti che li accompagnavano, quindi si teme che ad oggi il totale ammonti a più di 2500 minori separati.
José Ma. García Lara, conosciuto come “Chema”, presidente del “Movimiento Juventud 2000”, ci conferma che la pratica della separazione familiare è sempre stata utilizzata, anche durante l’amministrazione Obama, ma ora con Trump sta raggiungendo dimensioni più scandalose. «Le famiglie che si fermano qui a Tijuana prima di provare ad attraversare il confine sono terrorizzate» – ci dice con voce piena di rabbia – «è un fenomeno in continua crescita, ma è imprevedibile sapere quanto durerà e con che intensità».
Come Juventud2000, un’associazione di Tijuana situata proprio vicino al confine con San Diego che si occupa di accogliere migranti in transito e di denunciare le politiche razziste di Messico e Stati Uniti che portano a violazioni strutturali di diritti umani, sono tante le realtà che stanno denunciando a gran voce la violenza della separazione familiare, come, tra le altre, Save the Children, l’American Civil Liberties Union (Aclu), le Nazioni Unite.
Non c’è nessuna politica ufficiale dell’amministrazione Trump che prevede che ogni famiglia che entri illegalmente negli Usa debba essere smembrata tra minori e adulti. Quello che accade, però, è che le persone fermate mentre tentano di attraversare illegalmente il confine verso gli Usa vengono trattenute in centri di detenzione per migranti, e in seguito portati di fronte a un giudice che ne decide o meno la deportazione.
È qui che il meccanismo si inceppa: sono infatti pochi i centri in grado di ospitare adulti e bambini insieme. I minori sono così trasferiti in altri centri, dove vivono in condizioni più simili alla detenzione che all’accoglienza.
Recentemente, anche l’Organizzazione delle Nazioni Unite ha denunciato, per bocca della portavoce dell’agenzia per i diritti umani Ravina Shamdasani, come «la detenzione di un minore non è mai nel suo supremo interesse e costituisce sempre una violazione dei diritti dei minori», e che «l’entrare in un paese straniero senza documenti dovrebbe essere affrontato come un reato amministrativo e certamente non giustifica la detenzione di bambini».
Il Department of Homeland Security (Dhs) statunitense assicura che gli agenti non separano le famiglie col fine di scoraggiare la migrazione illegale, ma «come richiesto dalla legge, il Dhs deve proteggere l’interesse dei minori che attraversano i nostri confini, e a volte questo ci porta a separare i bambini dagli adulti con i quali stanno viaggiando se non siamo certi della relazione parentale, o se pensiamo che il minore sia in pericolo».
Pramila Jaypal, membro della Camera dei rappresentanti di Washington, ha visitato uno dei centri di detenzione federale nello Stato di Washington, riportando la condizione delle centinaia di persone che scappano dalla violenza dei loro Paesi d’origine, entrano negli USA per chiedere asilo e vengono separati dai loro figli.
«Nessuna delle 174 donne che ho incontrato nella prigione – dichiara Jaypal- ha avuto la possibilità di salutare i propri figli, nessuna sa dove siano né ha avuto la possibilità di parlare con loro […] prima di essere detenuti in condizioni terribili, senza acqua, subendo abusi e violenze, in celle gelate».
Proprio pochi giorni fa Roxana, una donna trans proveniente dall’Honduras, arrivata negli stati Uniti con la Carovana Migrante di centroamericani, è stata uccisa dal freddo mentre era sotto la protezione dell’Immigration and Customs Enforcment (Ice), dopo giorni di detenzione in una di quelle gelide celle tristemente note come “Ice-box”.
Le modalità con cui gli agenti della Border Patrol separano le famiglie, inoltre, sono tremendamente ambigue. Mentono sulla lunghezza della separazione, in alcuni casi allontanano i minori con la scusa di fare loro solo poche domande, e dopo ore viene comunicato ai genitori che i bambini non verranno riportati indietro.
Aleman Bendiks, un avvocato d’ufficio federale, dichiara che a molti dei suoi clienti è stato detto dagli agenti della “migra” che stavano solamente portando i bambini a farsi una doccia e, dopo aver reso chiaro che non li avrebbero portati indietro, annunciavano con toni di scherno che le loro famiglie «non sarebbero più esistite».
La separazione familiare è un’atrocità che alcuni, come l’onduregno Marco Antonio Muñoz, non riescono a sopportare. Dopo essere stato separato dalla moglie e dal figlio, Marco si è tolto la vita nel maggio scorso.
Vi sono anche casi di famiglie separate addirittura durante la regolare presentazione della domanda di asilo, come è successo a una donna congolese separata da 3200 chilometri per 8 mesi da sua figlia con l’unica motivazione che «gli agenti non erano sicuri che le due fossero davvero imparentate». Ma «se fosse davvero questa la giustificazione» – denuncia l’Aclu (American Civil Liberties Union) – «avrebbero potuto togliersi il dubbio in poche ore con una prova del Dna».
Non è chiaro quanti siano questi casi di separazione familiare dei richiedenti asilo in proporzione alle separazioni totali, perché non sono specificati. É certo, però, che non sono frequenti come le separazioni delle famiglie che entrano clandestinamente.
Gli agenti al confine etichettano i minori come “minori stranieri non accompagnati” (Msna) anche coloro che arrivano con le famiglie.
La differenza fondamentale tra i minori che viaggiano con la famiglia e i minori non accompagnati è che quando sono veramente “minori non accompagnati”, devono essere abbastanza adulti per poter affrontare il viaggio soli, cosa che, nella maggior parte dei casi, avviene quando hanno lontani parenti negli Usa. I minori che viaggiano con le famiglie, che subiscono la separazione da esse, sono anche molto piccoli di età e senza nessun altro contatto negli Usa.
Per la legge federale, i Msna devono essere presi in custodia dall’Office of Refugee Resettlement (Orr), parte del Department of Health and Human Services, responsabile di individuare il parente più prossimo che vive negli Usa che possa prendersi cura del minore o, come ha recentemente dichiarato il capo dello staff della Casa Bianca, John Kelly, alla National Public Radio in una intervista che ha suscitato indignazione, «dati in affidamento o qualcosa del genere».
I minori in teoria sono mandati al Orr entro 72 ore dalla loro presa in carico. Sono tenuti in strutture governative, o brevi affidamenti, per giorni o settimane mentre la Orr tenta di identificare il più vicino parete negli Stati Uniti che può prenderli in custodia mentre il caso di immigrazione dei suoi familiari (se li ha) si risolve.
Pura teoria, perché il sistema è completamente al collasso.
In aprile scorso, il Department of Justice ha annunciato che ogni migrante indicato come “illegale” dagli ufficiali del Department of Homeland Secutiy sarebbe stato processato. Il 7 maggio i due dipartimenti hanno annunciato una politica di “tolleranza zero” promettendo che il 100% dei migranti che avrebbero attraversato illegalmente il confine sarebbero stati mandati al Department of Justice e processati.
Al 7 giugno, le strutture Orr erano piene al 95%, con 11mila minori detenuti,di cui la maggior parte erano minori stranieri non accompagnati.
Lo scorso 26 aprile l’Office of Refugee Resettlement nell’illustrare al congresso l’operato del programma Unaccompanied Alien Children (Uac) ha dichiarato che dei 7mila minori che ha tentato di ricontattare, 1475 sono risultati irreperibili. Minori “persi” dal governo dunque, e finiti nelle mani di chissà chi.
Due giorni prima della presentazione della relazione Orr, un’inchiesta di Frontline PBS, programma televisivo di giornalismo investigativo, ha reso pubblici casi di adolescenti minori “affidati” in campi di lavori forzati in cui vivevano in condizioni disumane.
Appena un mese dopo, il 22 maggio, è un dossier dell’Aclu a riferire di diffusissimi abusi sui minori non accompagnati detenuti dal US Customs and Border Protection.
Dopo la separazione forzata, alcune famiglie riescono poi a riunificarsi, ma la maggior parte no. Quando il genitore è sotto la custodia dell’Ice, e il minore è sotto la custodia dell’Health and Human Service System, il governo non prova a riunirli, ma prova invece ad affidare il minore ad altri parenti negli Stati Uniti, al contrario di quanto più volte promesso dall’ICE e dal DHS.
Fra l’altro, il volantino distribuito dall’Immigration and Customs Enforcement per risolvere i casi di separazione familiare (scritto per di più soltanto in inglese) riportava un numero telefonico sbagliato: invece di essere un numero per contattare l’Orr, è un numero Ice, su alcuni volantini corretto poi a penna.
Questa “svista” la dice lunga, ma non è tutto: vista la difficoltà (se non impossibilità) di accesso alle linee telefoniche da parte dei detenuti, non si capisce come l’Orr dovrebbe richiamare i genitori in caso di riscontro positivo.
La finalità di deterrenza dell’odiosa strategia della divisione delle famiglie non è mai stata nascosta, anzi è stata pubblicamente annunciata dal segretario John Kelly, ma il procuratore generale Jeff Session si è spinto ancora più in là, citando addirittura la Bibbia per motivare le separazioni; giustificazione confermata poi dalla portavoce della casa Bianca Sarah Sanders.
Un recente ricorso presentato dalle ACLU potrebbe però aprire la strada all’accusa di incostituzionalità della pratica di divisione delle famiglie. In giugno, infatti, il giudice Dana M. Sabraw ha dichiarato che se le accuse mosse contro l’Ice sono vere, si tratterebbe di violazione dell’integrità familiare, per alcuni implicitamente garantita dal 5° Emendamento della Costituzione americana in cui si annoverano le libertà di cui non si può essere privati senza un giusto processo.
Sebbene sia una piccola vittoria, il ricorso è ancora aperto, e anche qualora fosse vinto, ovviamente non comporterebbe la fine immediata delle separazioni familiari al confine; ma dichiarare l’incostituzionalità di questa pratica e dell’accusa criminale rivolta verso gli immigrati irregolari sarebbe comunque un importante passo avanti.
Il governo Trump sta quindi mettendo in campo una strategia politica atroce e di stile terroristico (e non è l’unico): punire i bambini e le loro famiglie per scoraggiare tutte le altre a fuggire dalla fame e dalle violenze e chiedere asilo gli Stati Uniti.
Ma la risposta non si è fatta attendere: in questi giorni in decine di città statunitensi si stanno svolgendo mobilitazioni della campagna “Families belong togheter – Familias unidas no divididas”, con l’obiettivo di denunciare e di opporsi alla pratica inumana e illegale della separazione delle famiglie migranti.
Gli attivisti, le comunità di migranti negli Stati Uniti, le associazioni di avvocati, insieme stanno sfidando l’amministrazione di Trump sul terreno legale e, soprattutto, sul terreno politico, denunciandone le violenze e restituendo dignità a quelle voci che il governo vorrebbe intimidire, coloro che Trump chiama “animali”.
Vuoi vedere, caro Donald, che anche per te è finita la pacchia…