Lo Stato siamo noi! Nel 2018 non è il Re Sole che lo afferma ma il nuovo vicepremier Luigi Di Maio durante la prima manifestazione subito dopo il giuramento davanti al Presidente della Repubblica. Da comune cittadino non capisco se è un problema di ignoranza o di arroganza. Mi hanno insegnato a scuola che far parte di un governo, nella Repubblica italiana dove la sovranità appartiene al popolo, che la delega con il voto ai suoi rappresentanti, significa dirigere uno degli organi più importanti dello Stato democratico. Farne parte non significa sostituirlo nella sua sostanziale funzione di organizzazione istituzionale unitaria e complessa.
Da Salvini, l’altro vicepremier e ministro dell’Interno, apprendiamo che il nostro migliore alleato per impedire l’arrivo di nuovi migranti in Europa sarà Orbán, premier dell’Ungheria. Egli ha rifiutato, e continuerà a farlo violando il diritto d’asilo, i migranti che fuggono da guerre e fame e ha affermato una forma moderna di neofascismo. L’Ue dovrà decidere rapidamente se tutto ciò è compatibile con la democrazia sulla quale essa è stata fondata dopo il disastro provocato dal nazifascismo e dai totalitarismi.
Intanto si torna a sparare a lupara contro un giovane sindacalista maliano che lottava contro il lavoro nero e il capolarato che grava sui migranti, i nuovi schiavi del XXI secolo.
Nessuna reazione dal neo-ministro dell’Interno, mentre i braccianti della Piana di Gioia Tauro scioperano compatti. Sembra essere tornati indietro quando, nell’Italia meridionale del dopoguerra, la lotta per la Riforma agraria e per i diritti del lavoro dei braccianti e dei contadini fu funestata in Sicilia da ben quarantacinque capilega ed esponenti politici democratici uccisi dalla mafia.
Sono tre temi da tenere presente per ripensare l’identità, l’organizzazione e la politica di un nuovo soggetto unitario della sinistra e del centrosinistra. Davanti questi fenomeni in altre epoche la sinistra sarebbe scesa subito in piazza, avrebbe chiamato tutte le forze democratiche a fronteggiare la destra, le sue elucubrazioni razziste, sovraniste, populiste e le mafie che lucrano sulle nuove diseguaglianze sociali. La sinistra non dovrebbe aspettare il fallimento dell’azione politica del governo populista e sovranista per rilanciare la propria azione alternativa. Perché nel frattempo qualcun altro raccoglierà il malcontento dei cittadini disagiati sempre più sfiduciati e privi di speranza.
La sinistra dei popcorn non vedrà un lieto fine dello spettacolo attuale. Non basta dichiararsi contraria alle previsioni catastrofiche dell’ulteriore indebitamento del Paese se fosse attuato il “contratto” se non c’è una sincera autoanalisi e autocritica sulle sconfitte del centrosinistra dal Referendum alle elezioni del 4 marzo, alla contrarietà delle forze sociali e di una larga fetta dei cittadini verso la “buona scuola, il Jobs Act e le cento cose fatte, ma non capite dai più poveri, dal Nord, dal Centro, dal Mezzogiorno del Paese, dai precari, dai migranti laureati, dalle imprese schiacciate dal dio mercato del neoliberismo e dall’economia criminale. Bisogna prendere atto del fallimento della terza via Blairiana che di fronte alla crisi globale del 2002 dominata dalle multinazionali non ha saputo esplorare nuove strade rimanendo schiava anch’essa del dio mercato e del neoliberismo. La sinistra o si opporrà al dio mercato, alla sua dittatura e sposerà la critica dura e aspra che lo stesso Papa Francesco, che non è un vetero comunista, muove al sistema capitalistico, oppure non troverà la sua nuova identità. Occorre modellare il nuovo partito della sinistra plurale sui temi dei deboli, dell’uguaglianza nei diritti sociali, civili e politici, della democrazia partecipata, della politica che governa il libero mercato globalizzato. Le scelte annunciate dal nuovo governo non riusciranno a combattere le disuguaglianze, anzi le rafforzeranno. Basta guardare cosa scrive Chiara Saraceno, sul “contratto di governo” a proposito del Welfare “poco universalista, parcellizzato, sfavorevole ai giovani, alle famiglie con figli, alle donne con incarichi familiari”.
Quindi ritornare alla solidarietà nella quale difendere i diritti degli individui senza mortificare nessuno. Tutto ciò presuppone che la “sinistra” torni a discutere con la gente delle città, delle periferie, delle campagne, con i poveri, con il mondo del lavoro, della produzione e delle professioni di dignità, del lavoro, di un nuovo modello di sviluppo.
Se no chi rappresenterà? Chi la organizzerà, non con i clic o i twitter, ma nel web e nelle sedi fisiche, la nuova democrazia partecipata?