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La Cassazione vieta agli operai di fare satira. Licenziati definitivamente Mimmo e gli altri 5 lavoratori della Fiat

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Il cappio al collo di un uomo qualunque non fa più notizia, si confonde nella cronaca di morti annunciate da questa crisi che sta logorando il tessuto saldo del nostro paese. Ma se quel cappio diventa il simbolo di una protesta, forte, simbolica, provocatoria, che vuole rompere il muro dell’indifferenza, “travalica i limiti della dialettica” È questa la sentenza che dopo anni di lotte condanna definitivamente i cinque operai della Fiat di Pomigliano al licenziamento.

Nel giugno del 2014 dopo il suicidio di Maria Baratto, inscenarono il suicidio di un manichino che aveva il volto di Marchionne. Un gesto teatrale che attraverso la satira voleva denunciare la drammatica ondata di suicidi che aveva colpito negli ultimi mesi molti lavoratori cassa integrati della Fiat. Per quella protesta Mimmo, Marco, Antonio, Massimo e Roberto furono licenziati, poi reintegrati ma lasciati a casa e oggi la gelida sentenza della cassazione li riporta indietro di anni nell’incubo del licenziamento.

Mimmo e gli altri operai hanno lottato insieme per difendere il diritto al lavoro, alla solidarietà e all’indignazione. Hanno scelto di non accettare che nel Polo logistico di Nola per anni venissero “confinati” e in cassa integrazione centinaia di operai in gravi condizioni economiche e sociali. Considerati come “materiale umano” distruggendone la dignità e le prospettive.

Mimmo era addirittura salito su una delle ciminiere dell’ex Italsider di Bagnoli proprio per sensibilizzare l’opinione pubblica sulla vicenda, e in molti si erano schierati a favore degli operai. Oggi una sentenza pesante stabilisce che mentre è legittimo esiliare, umiliare e licenziare i lavoratori, non è legittimo protestare contro queste ingiustizie. Il diritto di opinione nel nostro paese è sempre più sotto attacco, così come quello di satira, o meglio è un privilegio dei potenti.


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