Luciana Alpi era malata, ma nessuno si aspettava che ci lasciasse così. La scorsa settimana aveva chiamato, il giorno prima dell’udienza che avrebbe dovuto decidere se archiviare o no il caso dell’omicidio di sua figlia Ilaria e di Miran Hrovatin: “Non posso venire a Piazzale Clodio – queste le sue parole -. Sono ricoverata per dei controlli. Tanto ci siete voi, insieme agli amici della FNSI, di Libera, di Lega Ambiente”.
Era vero, ma il suo fisico era debilitato dalla malattia e così non ce l’ha fatta, Luciana. Al dolore che le ha devastato la vita, con l’uccisione di una figlia, giornalista del Tg3 valorosa e coraggiosa, si è aggiunto così anche quello di essersene andata senza che questo Paese abbia raggiunto su quello che accadde quel 20 marzo 1994 a Mogadiscio due semplici parole: giustizia e verità. Eppure si sa quello che accadde a Mogadiscio.
Si sa che Ilaria aveva scoperto traffici sporchi di rifiuti e armi, all’ombra della cooperazione internazionale del nostro Paese. E che per questo venne uccisa. Ed è acclarato che da subito ci furono pigrizie nelle indagini, depistaggi, deviazioni, azioni di faccendieri, spie, personaggi equivoci. Che ci furono false testimonianze. Come quella di un somalo, Gelle, che – minacciato e pagato anche da “italiani” – accusò dell’omicidio un innocente, Hashi Omar. Che si è fatto, da innocente, sedici anni di carcere in Italia. Luciana e Giorgio Alpi (il papà di Ilaria scomparso da qualche anno) lo andavano a trovare, perché sapevano che quel ragazzo stava scontando ingiustamente e crudelmente quella pena.
Ed è stata un’altra coraggiosa giornalista d’inchiesta – Chiara Cazzaniga di “Chi l’ha visto” – a scovare quasi tre anni fa Gelle, a intervistarlo, a fargli ammettere di avere detto il falso. Di lì una fin troppo laboriosa rogatoria, una revisione del processo condotta seriamente dalla Procura di Perugia e la sentenza di assoluzione e immediata scarcerazione. Eravamo anche noi insieme con Luciana alla Corte d’Appello di Perugia, quel giorno di ottobre di due anni fa.
Vengono ancora brividi di emozione e commozione nel ricordare l’abbraccio tra lei e Hashi. Da quel giorno, insieme a Beppe Giulietti e Raffaele Lorusso (che hanno continuato le battaglie, tra gli altri, di Roberto Morrione e Santo Della Volpe), insieme a tanti giornalisti e associazioni, a persone come Mariangela Grainer, a oltre duecentocinquanta parlamentari che firmarono una petizione, Luciana ha ripreso la battaglia per dare nuovo impulso alle indagini, lungo la strada tracciata dalle motivazioni della sentenza di Perugia. Non stava bene, era stanca e anche sfiduciata. Ma ai lunghi momenti di amarezza seguivano quelli della tenacia e della voglia di battersi ancora. Lo doveva a Ilaria, diceva. Gliel’ho sempre sentito dire, fin da quando la conobbi, ormai più di venti anni fa, grazie alla mia collaborazione con Walter Veltroni, che in tutti i suoi ruoli istituzionali e politici si è battuto, con Luciana e Giorgio, per la verità, fin da quel terribile giorno in cui arrivò da Mogadiscio la notizia dell’omicidio.
Ora la battaglia e l’impegno continuano. A giorni ci sarà la sentenza. Noi ci auguriamo che il caso non venga archiviato.
Perché il caso non è chiuso e non può essere chiuso. E comunque noi non archivieremo. Lo dobbiamo a Ilaria e Miran. Lo dobbiamo a Luciana. Ma lo deve a se stesso questo Paese.