Una volta erano tutti marocchini. Ed erano talmente marocchini che un giornale fece un titolo su un incidente stradale e scrisse “morto un uomo e un marocchino”. È questo il rischio più grande, il pericolo che si corre ad usare le parole in modo sbagliato: si disumanizza. Magari lo si fa senza una reale intenzione, lo si fa per distrazione, ma l’effetto è comunque devastante.
Oggi ci troviamo ancora di fronte ad una narrazione delle migrazioni che usa male le parole, parole che vengono mutuate dalla politica.
Pacchia, crociera, clandestino, la paghetta dei 35 euro, invasione, sono le parole di questi ultimi mesi. Parole con cui la politica continua a fare propaganda. Parole che rimbalzano su tutti i giornali e su tutti i telegiornali, continuamente. In questi giorni abbiamo assistito a trasmissioni televisive in cui politici parlavano di miliardi di africani pronti a partire. Miliardi., Roba che neanche esistono miliardi di africani. Tutto questo avveniva in studi televisivi coordinati da giornalisti, ma a quelle parole, a quei numeri così distanti dalla realtà non veniva posto un argine, non veniva chiesto un chiarimento.
Io dico che dobbiamo scegliere da che parte stare. Dobbiamo prendere una posizione, in queste circostanze non è più rinviabile la decisione di schierarsi in modo netto e preciso.
Dobbiamo affermare con grande determinazione che stiamo dalla parte della verità dei fatti.
Con l’Associazione Carta di Roma abbiamo deciso di lanciare una campagna sulle parole, sull’uso corretto delle parole. 12 cartoline contro i discorsi di odio, immagini e parole con il loro sorprendente significato reale che si scopre facilmente aprendo un dizionario e che ci mostra la differenza tra realtà e propaganda. Quelle 12 cartoline chiediamo a tutti di stamparle ed inviarle ai nostri garanti istituzionali: al Presidente della Repubblica e ai Presidenti di Camera e Senato. Un appello al buonsenso, all’uso corretto delle parole, ma anche un modo per chiedere rispetto dei principi antifascisti e antirazzisti scritti nella costituzione.
Abbiamo trascorso gli ultimi dieci anni seguendo un rituale che ogni anno si è ripetuto sempre uguale a se stesso con tempi e ritmi sempre identici, dettati dalla politica: prima un’allarme che ad inizio estate annuncia l’imminente partenza dalle coste africane di 500 mila, di 800 mila, di un milione di persone. Un avviso minaccioso fondato su dati impossibili da verificare, lanciato sempre da fonti istituzionali. Un allarme che ha come unico effetto immediato quello di mettere in posizione di difesa il pubblico, il lettore, il cittadino. Dopo l’allarme il resto dei mesi estivi si passano a contare. Sui moli, nei porti, sulle navi. Ogni estate abbiamo contato ogni sbarco e ogni singolo arrivo. Ma alla fine dei conti quell’invasione annunciata e attesa non c’è mai stata. Il numero più alto di arrivi in un anno è stato cento ottantamila ovvero un quinto delle persone che partecipano al concertone del primo maggio. L’emergenza che ogni anno ci hanno venduto come tale, è sempre stata uguale a se stessa. Un fatto in realtà strutturale che, però, ha trovato sempre impreparata la macchina della accoglienza. Anche se i numeri non sono mai stati ingestibili: 153 mila nel 2015, 180 mila nel 2016, 119 mila nel 2017.
L’Uganda ha accolto un milione e cinquecentomila rifugiati in due anni, così per dire. Parole come invasione sono lontanissime dalla realtà oggettiva. Anche mettendo insieme gli arrivi degli ultimi 5 anni in Italia non si riuscirebbe a riempire piazza san Giovanni come sa fare un mediocre primo maggio.
Carta di Roma lo ripete da dieci anni. Il 25 giugno saremo alla Casa del Cinema a Roma per un evento che vuole ripetere, ancora una volta, il principio di base su cui l’informazione deve fondare il racconto delle migrazioni: la ricerca della verità sostanziale dei fatti, che con l’uso corretto delle parole e l’obiettività dei numeri è il solo argine alla costruzione distorta della realtà che gli “spaventatori” ripetono ogni giorno. È una questione di dignità, di credibilità, di sopravvivenza del mestiere di giornalista.
Negli stati uniti accade qualcosa di simile da tempo. Il Washington Post si è chiesto recentemente in un editoriale quale fosse il giusto atteggiamento da adottare nei confronti di un presidente come Trump che non vuole giornalisti che fanno domande ma giornalisti che rilanciano i suoi tweet ed i suoi messaggi aggressivi, anche se si tratta di bugie.
Quell’editoriale proponeva di “evitare di ripetere le bugie della politica. Evitare di metterle nei titoli, nei lead o nei tweet. Perché è proprio questa amplificazione che dà loro potere”.
È una riflessione necessaria anche in questa parte di mondo, perché l’effetto delle campagne di odio è quello che è successo nei primi due mesi dell’anno, durante la campagna elettorale: la parola negro è comparsa sui giornali come mai era successo negli anni precedenti: 57 volte in 59 giorni, e ogni volta corrispondeva ad un virgolettato, alla denuncia di una vittima di aggressione a sfondo razziale.
Ma oggi siamo già oltre, stiamo già contando morti e feriti, vittime di odio razziale, vittime di chi si sente legittimato dal clima, dall’aria che si respira.
Ma il clima lo fanno le parole, perchè le parole fanno le cose e possono trasformare la realtà. La responsabilità è anche e forse soprattutto di chi scrive e racconta ciò che accade. Dobbiamo smettere di amplificare l’odio. Dobbiamo scegliere da che parte stare.