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Cittadinanza politica per i nuovi lavoratori e le nuove forme del lavoro

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Il nostro Marco Dal Pozzo ci propone una sua riflessione che partendo da uno dei temi principali della nostra ricerca dell’ultimo periodo: l’algoritmo e la sua rilevanza sociale; ci porta ad esplorare un poco più in profondità il tema del lavoro e della contrattazione sindacale, dei diritti e dei doveri dei lavoratori dentro la cosiddetta “società degli algoritmi”, come abbiamo noi stessi battezzato il nostro presente, nell’edizione pratese dello scorso anno del nostro festival. Le considerazioni del nostro associato prendono spunto in particolare dal lavoro del giornalista del Manifesto  Benedetto Vecchi, responsabile delle pagine culturali del quotidiano ed esperto di nuovi media, dedicato al nuovo modello economico delle techno companies, meglio conosciute alle nostre latitudini con l’acronimo OTT, Over the top.  Ma lasciamo la penna o meglio la tastiera a Marco Dal Pozzo, che ringraziamo, e al quale ci uniamo nell’augurarvi  buona lettura.

 

“La contrattazione dell’algoritmo è una battaglia tattica rispetto all’obiettivo più grande di rivedere i nuovi rapporti di lavoro in un sistema in cui, alla promessa della Sharing Economy, si è “arretrati” nel campo della Gig Economy in un percorso che ha lasciato senza casa politica e senza rappresentanza i “Nuovi Lavoratori” e i “Nuovi Lavori”.

In considerazione dei ragionamenti che da un paio di anni stiamo facendo qui a bottega sulla trasparenza degli algoritmi, questo argomento, tra quelli trattati nella ricerca di Benedetto VecchiIl capitalismo delle piattaforme , pubblicato lo scorso anno, mi ha particolarmente colpito.

Vecchi cita Paul Mason secondo cui la Sharing Economy nasce nel contesto che tutti conosciamo della vittoria di Syriza in Grecia. La Sharing Economy – dice Mason – è la fase parassitaria dell’appropriazione privata di innovazione prodotta dai rapporti sociali (che hanno luogo proprio sulle piattaforme). Una possibile soluzione per uscire da questa trappola Vecchi la individua nella proposta di Sholtz che parla di Platform Cooperativism, inteso come modello di mutualismo e di scambio non mercantile: ma ridare dignità alla Sharing Economy non può essere e non è l’unico obiettivo perseguibile: occorre recuperare la dignità dei lavoratori e del lavoro in una realtà che – per dirla ancora con Vecchi, stavolta in “rete dall’utopia del mercato”  non si può pensare di arrestare. Ma la questione è sfuggita un po’ di mano. E non penso sia difficile capire il perché.

 

La rivelazione di questa ricerca riguarda il percorso cognitivo di ciascun individuo: quando Vecchi dice che l’impresa definisce i dispositivi per catturare l’innovazione, dice che i passaggi di senso dal dato all’innovazione (attraverso i nodi dell’informazione e della conoscenza) sono proprietà di chi detiene le piattaforme in cui questo percorso ha luogo. La conclusione che ne traggo è che di loro proprietà è anche il benessere (che è l’approdo del percorso Wikid). In questo scenario il benessere non va più visto come un Bene Comune, nel senso di condiviso e non rivale, ma come Bene di pochi. L’antidoto, trattandosi di un percorso cognitivo che ha impatto sulla vita delle persone, è lo sviluppo di un senso critico che – prima ancora di arrivare a pretendere la contrattazione dell’algoritmo – centri almeno l’obiettivo della consapevolezza di questi giochi a somma zero.

 

Il metodo di analisi proposto da Vecchi è molto interessante: con la premessa di dover abbandonare l’impostazione marxista non più buona per contemplare la miriade di casistiche di rapporto capitale-lavoro, egli propone di partire andando a cercare in quello che definisce il “bacino del lavoro”. Dei “nuovi lavoratori” Vecchi suggerisce delle classificazioni. Ad esempio per competenza:

 

la questione delle competenze è cruciale: come ha osservato Krueger a Trento sul tema, “la tecnologia e il futuro del lavoro”:  è sul terreno delle competenze (e del relativo reddito) che si sta creando il vero scontro generato dall’innovazione tecnologica. La mia preoccupazione principale – ha detto Krueger – non riguarda la scomparsa del lavoro, ma riguarda una pressione verso il basso del reddito per i lavoratori meno qualificati e anche delle disuguaglianze maggiori di quelle che abbiamo avuto in passato.

 

Le altre classificazioni suggerite da Vecchi nel suo saggio sono: per scadenze temporali dei contratti, per luogo geografico, per ore del giorno o della notte in cui si lavora, per le particolari aziende per cui si lavora.Riconosciuto il dato di fatto (le imprese definiscono i dispositivi per catturare l’innovazione frutto della cooperazione sociale, che è l’inganno della Sharing Economy), quale può dunque essere una possibile soluzione? Oltre al paradigma di Sholtz della cooperazione tout court, lontano dalla soluzione di Jarome Lanier di recuperare un reddito di base dal capitale delle OTT (che è praticamente la proposta Diem25), Vecchi pensa sia necessario considerare queste nuove forme ciascuna con la propria peculiarità mettendo in piedi una organizzazione reticolare del lavoro. Organizzazione che personalmente immagino come un contenitore di tipo mutualistico in grado di federare queste forme lavorative, costituendo un fronte comune nei vari passaggi di un processo che per semplicità potremmo definire normativo (senza avere però la certezza che di processo normativo vi sia bisogno).

 

Valerio De Stefano, nel suo intervento al Festival dell’Economia di Trento sull’argomento “nuovi lavori nuove regole”,  alla domanda se sia necessario identificare delle tutele e dei diritti e un tipo di statuto giuridico per la Gig Economy ha risposto:  “no perché la Gig Economy è una parte del mercato del lavoro. Dobbiamo capire – ha argomentato – se le norme esistenti sono applicabili alla Gig Economy ed eventualmente adattarle, ma definire una posizione specifica per la Gig Economy significa creare… Continua su lsdi


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