Negli ultimi anni hai coordinato le iniziative di Articolo 21 legate al rinnovo della Concessione del servizio pubblico. Tra queste, due concorsi che hanno visto la partecipazione di diverse migliaia di studenti chiamati a riscrivere in dieci righe “la carta d’identità” della Rai e a proporre un aggiornamento dell’Articolo 21 della Costituzione. Ora il tuo nome è presente sul sito della Camera dei Deputati come candidato del Consiglio di Amministrazione della Rai.
La Rai attraversa una crisi d’identità che si trascina da almeno quindici anni, una perdita di orientamento che ha colpito soprattutto i programmi popolari d’intrattenimento e i talk show, passerelle d’opinione che hanno inverato il celebre aforisma di Nietzsche: “non esistono fatti ma solo interpretazioni”. Tant’è che abbiamo visto progressivamente sparire dai palinsesti il giornalismo d’inchiesta sociale quello che dava la parola ai protagonisti e alle vittime del “mondo della vita” di cui parla Habermas. Finalmente, con il nuovo contratto di servizio, la Rai ha una mission chiara e distinta da perseguire come istituzione ma anche come impresa che deve tornare ad essere un volàno per l’industria culturale, dell’intrattenimento e del cinema.
Sei stato l’ideatore di Rai Educational e di programmi e progetti innovativi come “La storia siamo noi”, MediaMente e la “Enciclopedia multimediale della filosofia”. Che cosa dovrebbe fare la Rai per la crescita culturale del paese?
A differenza dei programmi educativi la cultura non è un genere. La cultura è il regno dei valori ideali, degli stili di vita, delle avventure dell’intelletto e del buon gusto. La cultura è coscienza critica, approfondimento, spiritualità, La cultura – come peraltro l’incultura – permea di sé tutte le forme d’espressione; pertanto, la Rai oltre a dare spazio ai programmi cosiddetti “culturali” deve innanzitutto mettere più cultura nei programmi, soprattutto in quelli d’intrattenimento e di grande ascolto comprese le telecronache sportive (Zavoli insegna).
I dirigenti delle Tv commerciali devono soltanto procurarsi il maggior numero di spettatori da vendere alle agenzie di pubblicità; quelli del servizio pubblico, oltre ad ambire ai grandi ascolti, devono badare alla crescita culturale e allo sviluppo della capacità di giudizio dei cittadini: un compito difficile, ma certamente entusiasmante.
Il nuovo CdA dovrà portare a compimento la trasformazione della vecchia Rai-Radiotelevisione in un “media di servizio pubblico”, da dove pensi che si debba cominciare?
Da una convinta autocritica da parte delle forze politiche per i danni prodotti dalla lottizzazione; sebbene mettere alla guida della Rai persone competenti è condizione necessaria ma non sufficiente. Gli apparati della comunicazione non sono autobus la cui direzione di marcia è nelle mani di chi le conduce; piuttosto li si potrebbe paragonare ai tram; se insieme al manovratore non si cambia anche il tracciato delle rotaie, si potrà variare la velocità o il numero delle fermate, ma il percorso rimarrà sempre lo stesso.
Ciò che serve alla Rai è una diffusa “cultura dell’organizzazione”, cioè la consapevolezza che esiste un rapporto inscindibile tra il piano industriale, il modello organizzativo e il piano editoriale. Il modello organizzativo del servizio pubblico non può essere lo stesso di una Tv commerciale o di un aggregatore di contenuti a pagamento come Sky o Netflix. Il funzionamento di una grande azienda dev’essere funzionale al compito da svolgere, alla sua missione; se non vi è una stretta coerenza tra i mezzi e i fini, il risultato è la stagnazione, la perdita d’identità, gli sprechi, la tendenza all’outsoursing, la marginalizzazione di asset fondamentali (si pensi ai Centri e alle Sedi regionali che, pur essendo risorse pregiate che operano, di fatto, in regime di monopolio, sono vissute come un fardello).
Subito dopo la riforma della Rai del 1975, per realizzare la rubrica d’inchieste sociali “Cronaca”, abbiamo creato, con il consenso del CdA dell’epoca, un Nucleo-Ideativo-Produttivo (NIP) composto da giornalisti e tecnici che operavano collegialmente come una task force permanente. Perché non riorganizzare le redazioni delle testate ispirandosi a questa esperienza?
La qualità dei contenuti dipende dalla qualità del modello produttivo. Parafrasando McLuhan si potrebbe dire che “l’organizzazione del medium è il messaggio”.
Quali sono i limiti dell’attuale modello organizzativo della Rai?
L’attuale struttura della Rai è il prodotto di una quarantennale stratificazione geologica di modelli organizzativi sovrapposti gli uni agli altri e incompatibili: reti e testate in concorrenza tra loro, ma pronte a fare fronte comune contro le direzioni tematiche (fiction, cinema, cultura, sport); strutture di programmazione di piccolo cabotaggio, risalenti al 1975, in grado di produrre solo per la messa in onda televisiva; centri di produzione ridotti a officine di vecchio stampo tayloristico che impoveriscono i profili professionali e demotivano i lavoratori; strutture amministrative e gestionali fortemente accentrate nella Direzione Generale che alimentano vischiosità burocratiche e una diffusa irresponsabilità nei dirigenti. Per non parlare dell’asfittica presenza della Rai su internet dove si limita sostanzialmente a riproporre i programmi televisivi senza alcuna progettualità perseguendo, oltretutto, un’innaturale alleanza con i big dell’hi-tech invece di stringere rapporti con il mondo dell’open source o con realtà come Wikipedia che svolgono attività di servizio pubblico sulla rete. La Rai dovrebbe organizzarsi per macrogeneri (informazione, intrattenimento, fiction, sport, ecc.) e non per media. Il risultato di questa babele organizzativa è un arcipelago di piccole monadi monomediali, senza porte e senza finestre, dove tutti fanno tutto… contro tutti; e ciascuno idea, produce e programma per un solo medium. Questa gabbia impedisce lo sviluppo di nuove professioni e sterilizza la creatività impedendole di esprimersi. La nuova Rai ha bisogno di spiriti liberi, creativi, intraprendenti, colti, efficienti, provvisti di una ferma coscienza civile, e di dirigenti dotati d’immaginazione burocratica, un requisito paradossale all’apparenza, senza il quale però ogni disegno di cambiamento è destinato a fallire.