Come è naturale, le elezioni non rappresentano soltanto una indispensabile scadenza per il funzionamento delle istituzioni democratiche, ma anche una cruciale verifica degli umori di un paese. Uno dei messaggi più riconoscibili nella recente prova elettorale è il peso che in essi ha giocato e gioca la questione immigrazione. Su ciò convergono osservatori e protagonisti a livello nazionale e internazionale. All’indomani delle elezioni del 5 marzo il presidente francese Macron ha osservato: «Indubbiamente l’Italia ha sofferto della pressione in cui vive da mesi e mesi, compreso un contesto di forte pressione migratoria» e, trovandosi insieme a commentare i risultati italiani, lui e la cancelliera tedesca Merkel hanno concluso: «sono le conseguenze delle sfide migratorie a cui non abbiamo saputo rispondere».
La questione immigrazione e le elezioni
In Italia, dunque, come in molti altri paesi europei, la questione immigrazione è centrale per due motivi. Da un lato si tratta di un fenomeno epocale destinato a trasformare gli assetti sociali dell’Unione e degli Stati che ne fanno parte. Dall’altro, essa si presta efficacemente a tracciare i confini tra i partiti e a segnalare agli elettori le appartenenze ideologiche (che, con l’avvento delle nuove destre populiste e sovraniste, non sono scomparse ma sono semplicemente cambiate). Il dibattito, in questi casi, tende verso un tasso di razionalità che è inversamente proporzionale alla serietà delle sue implicazioni. La campagna elettorale italiana è emblematica in questo senso: partiti e movimenti hanno adottato toni concitati e sferrato attacchi furibondi contro gli avversari, definiti “assassini” e con “le mani sporche di sangue” (dopo il massacro della povera Pamela a Macerata). Al di là dell’eccitazione elettorale, comunque, le prese di posizione politiche sull’immigrazione non sono funghi (commestibili o velenosi a seconda dei punti di vista) che spuntano nella notte e il giorno dopo spariscono. L’immigrazione è un fenomeno che è venuto per restare. Esso quindi andrebbe compreso in tutti i suoi aspetti, piuttosto che stigmatizzato come un capro espiatorio o, meglio ancora, allevato gelosamente come una gallina dalle uova d’oro per i rendimenti politici che garantisce.
Invece, adottando queste due visioni la destra ha imbracciato la questione immigrazione e ne ha fatto, insieme alle promesse di riduzione delle tasse (flat tax) e di abbassamento dell’età pensionabile (riforma Fornero), uno degli assi portanti della sua campagna elettorale. La domanda è: perché questa strategia ha avuto tanto successo? Come accennavamo, la drammatizzazione del fenomeno migratorio non è una tendenza soltanto italiana, né è sorta con le elezioni del 4 marzo. Da tempo nel nostro paese, sia pure con qualche vincolo culturale in più rispetto ad altri (ad esempio nell’Est europeo) è in atto un processo collettivo che lo psicanalista Franco Fornari avrebbe definito paranoideo: lo spostamento della paura dall’interno del soggetto al suo esterno, rappresentato da uno straniero identificato come “nemico”. Inizialmente quest’ultimo appariva tale in quanto potenziale criminale e veniva definito sulla base della sua identità nazionale (“l’extracomunitario” marocchino o albanese in concomitanza con le prime “ondate” di immigrati). Oggi l’ostilità è giustificata dalla potenziale minaccia jihadista e la definizione dello straniero si basa sulla sua identità religiosa. Sia quella nazionale, sia quella religiosa sono due identità difficili o impossibili da modificare. Questo apre già di per sé la strada allo stereotipo, nel secondo caso ancora più coinvolgente del primo per via dei significati profondi che la dimensione religiosa porta con sé. In particolare, l’allarme è suscitato da una fede che si presenta come socialmente pervasiva e fortemente strutturata quale quella musulmana. Nell’era del terrorismo le condizioni per la sua colpevolizzazione ci sono tutte e sono state così scolpite dal premier ungherese Viktor Orban: «ogni singolo migrante pone un rischio di sicurezza pubblica e di terrorismo […] tutti i terroristi sono fondamentalmente dei migranti». Da qui quello che possiamo chiamare il sillogismo di Orban, largamente diffuso tra i populisti: gli immigrati sono spesso musulmani; i musulmani sono spesso terroristi; in conclusione gli immigrati sono spesso terroristi. Sebbene nessuna di tali affermazioni sia di per sé esatta, il collegamento tra esse sembra funzionare e fa breccia nell’opinione pubblica, destinataria di messaggi nei quali gli immigrati vengono sistematicamente presentati come una minaccia.
Immigrazione e immigrati nei discorsi dei politici
In questo quadro quali posizioni hanno assunto leader e forze politiche sui temi della sicurezza e dell’immigrazione (significativamente declinati insieme) nelle elezioni del marzo 2018? In materia di sicurezza il Partito democratico ha cercato di tenere insieme la prevenzione strutturale e quella situazionale con la parola d’ordine renziana di “un euro in sicurezza e uno in cultura”, contemporaneamente cercando di spostare l’attenzione sulle periferie con l’obiettivo di “rammendare” (secondo la metafora di Renzo Piano) i territori urbani in crisi. Sullo specifico tema dell’immigrazione, a differenza di altre forze politiche per il Partico Democratico il collegamento con la sicurezza è stato solo indiretto. Rivendicando l’efficacia del decreto Minniti, il PD ha citato il controllo degli sbarchi, significativamente diminuiti nell’ultimo anno grazie agli accordi con la Libia, nonché le rivendicazioni che il governo di centrosinistra ha avanzato nei confronti dell’Europa affinché condividesse la gestione della crisi migratoria. Contro accordi con i paesi di partenza, che non garantiscono i diritti umani, invece, si è pronunciato Liberi e Uguali, che ha reclamato la disdetta del memorandum d’intesa sottoscritto con il governo di Tripoli nel febbraio 2017. LeU ha anche proposto l’abrogazione della legge Bossi-Fini, da sostituire con un sistema di ingressi regolari, un dispositivo di asilo europeo e un rafforzamento del programma di accoglienza modellato sull’attuale Sprar (Sistema di protezione per richiedenti asilo e rifugiati).
Per quanto riguarda il Movimento 5 Stelle, gli obiettivi e i toni in materia di immigrazione sono apparsi complessivamente sfumati, paragonati a quelli molto più netti dei competitor alla propria sinistra e, soprattutto, alla destra. Luigi Di Maio, che nell’estate precedente aveva espresso solidarietà alle forze dell’ordine dopo lo sgombero a Roma del palazzo di piazza Indipendenza occupato dai profughi, su La Stampa del 3 marzo 2018 lancia due slogan che potremmo definire centristi come «sicurezza e legalità» e «stop al business dell’immigrazione». Con un occhio rivolto ai giovani del Sud, il capo M5S ha proposto diecimila assunzioni nei corpi di polizia e altrettanti nelle commissioni per l’esame delle richieste di asilo. L’ampliamento degli organici di Polizia e Carabinieri sarebbe servito a presidiare i quartieri delle città, anche per «evitare che una persona debba difendersi da sola» (in questo caso con un occhio critico nei confronti della legittima difesa illimitata proposta dal centrodestra).
Nel Programma per l’Italia, sottoscritto un po’ svogliatamente dalla coalizione di centrodestra nel gennaio 2017, la sicurezza risulta al secondo posto tra le priorità, subito dopo la crescita economica e prima delle famiglie e della piena occupazione. Alla voce “Più sicurezza per tutti” figurano il blocco degli sbarchi, corredato da “respingimenti assistiti” e accordi con i paesi di origine dei migranti economici, un Piano Marshall per l’Africa, il rimpatrio dei clandestini e, soprattutto, “l’abolizione dell’anomalia solo italiana della concessione indiscriminata della sedicente protezione umanitaria, mantenendo soltanto gli status di rifugiato e di eventuale protezione sussidiaria”. Anche da segnalare, al punto successivo, l’”introduzione del principio che la difesa è sempre legittima”.
Passando dalla coalizione di centro-destra ai tre partiti che ne hanno fatto parte, fin dall’inizio questi hanno preferito mantenere distinti i simboli e i manifesti elettorali. Sotto l’unico titolo «sicurezza» la Lega si è presentata agli elettori con un programma incentrato su quattro obiettivi: 1) «Lotta al terrorismo»; 2) «Blocco degli sbarchi e respingimenti assistiti»; 3) «Rimpatrio di tutti i clandestini»; 4) «Ampliamento della legittima difesa». Quanto a Forza Italia, il programma sulla politica migratoria è per i titoli: blocco degli sbarchi, accordo con la Libia e gli altri paesi di transito, diritto di partenza solo per i rifugiati, rimpatrio immediato per chi non ha diritto d’asilo, piano di investimenti per l’Africa. Infine, Fratelli d’Italia presenta il «Il movimento dei patrioti in 15 priorità», al cui punto 4 sono enunciati i seguenti obiettivi: il contrasto all’immigrazione irregolare e il no all’automatismo dello ius soli, il blocco navale e il rimpatrio sulla base di accordi con gli Stati del Nord Africa. A ciò si aggiungono l’abolizione della protezione umanitaria, l’asilo soltanto per donne e bambini, il decreto flussi per l’immigrazione regolare «solo per nazionalità che hanno dimostrato di integrarsi e non creano problemi di sicurezza». Di nuovo investimenti in Africa per «aiutarli a casa loro» e, in Italia, «prima gli italiani» nell’accesso ai servizi sociali e alle case popolari.
Non è tuttavia dai vari programmi, accomunati tra loro da uno stile scarno e burocratico, che trapelano gli accenti più veri e i sentimenti più profondi dei partiti e dei loro esponenti, bensì dalla materia incandescente costituita dalle sortite e dagli scontri nel fervore della campagna elettorale. Nello schieramento che si oppone senza mezzi termini all’immigrazione si distingue per il suo tono perentorio Matteo Salvini: «Libererò Albenga da tutti i clandestini, strada per strada, parco per parco, autobus per autobus – promette il leader della Lega nel comizio tenuto il 9 febbraio nella città ligure – porte aperte a chi soffre e scappa dalla guerra e si comporta bene. Ma il primo che crea disordini o che cerca di imporre valori diversi dai nostri va fuori». Lapsus involontario o brand identitario rivendicato consapevolmente, un pesante richiamo alla razza fa irruzione nella campagna elettorale per la Regione Lombardia, concomitante con le elezioni politiche. L’altrimenti poco noto candidato presidente Attilio Fontana (Lega) balza agli onori della cronaca nazionale rilanciando a metà gennaio la tesi della “sostituzione etnica”: «oramai è giunto il momento di decidere se la nostra etnia, la nostra razza bianca, la nostra società devono continuare a esistere o devono essere cancellate».
A gettare benzina sul fuoco interviene ai primi di febbraio la tragica morte di Pamela, la ragazza romana che a Macerata è stata uccisa e fatta a pezzi, un delitto per il quale viene immediatamente indagato un gruppo di immigrati irregolari di nazionalità nigeriana. Di lì a poco Luca Traini, un ventottenne del luogo in precedenza candidatosi con la Lega alle elezioni amministrative, percorre Macerata alla guida di un’auto e, avvolto in una bandiera italiana, esplode numerosi colpi di pistola che feriscono sei persone di colore (una delle quali gravemente). Come riferisce l’Ansa del 5 febbraio 2018, i due episodi vengono collegati tra loro da Giulia Bongiorno, candidata della Lega, e da Giorgia Meloni, la quale definisce “vergognoso” il fatto che «il presidente Sergio Mattarella non abbia telefonata alla famiglia della ragazza uccisa». Sul fronte opposto il leader designato di Liberi e Uguali Pietro Grasso critica l’uso del termine “follia” per il gesto di Traini, introducendo invece concetti come “razzismo” e “terrorismo”. Di “fascismo” e “terrorismo” parla anche Laura Boldrini, che cita tra i “maestri dell’odio” Matteo Salvini, il quale «in questi anni ha creato paura e caos». A sua volta Salvini replica parlando di una «immigrazione fuori controllo che hanno organizzato» [i governi di centrosinistra], rischiando di «provocare reazioni demenziali». La responsabilità è tutta di «una sinistra che ha pianificato una sostituzione di popoli perché hanno bisogno di schiavi per lavorare».
Alla prova del voto, l’affermazione di Fratelli d’Italia è stata inferiore alle aspettative della vigilia e l’azionista di maggioranza Berlusconi è stato sorpassato dal junior partner Salvini. Ciò fa pensare che nel fortunato raccolto di quest’ultimo un ruolo di primo piano sia stato rivestito non solo dai toni, ma anche dalla continuità dell’impegno anti-immigrazione espresso dalla Lega. Da un lato, infatti, Silvio Berlusconi non si è mai trovato molto a suo agio sui temi internazionali, arena distante e inadatta al suo stile personalistico e incline al compromesso. Incalzato in passato a causa di decisioni rivelatesi critiche per il nostro… Continua su confronti