Disagio, malattia, pazzia, raptus. Parole che hanno la pretesa di descrivere e far conoscere la persona che viene travolta dal fantasma del disturbo mentale, e che invece spesso se non sempre la etichettano, la condannano, la allontanano, la confinano in una terra che è di tutti e di nessuno nel contempo. Ancora oggi.
A quarant’anni dall’approvazione della Legge 180, che ha segnato la chiusura dei manicomi restituendo dignità e realtà a chi vive la sofferenza di una patologia difficile da diagnosticare, facile da estendere in maniera arbitraria laddove non ci siano un approccio professionale e multidisciplinare, ci si è chiesti quale sia il ruolo dell’informazione nel veicolare la conoscenza e l’esistenza del dolore mentale, al di là del discrimine fra normalità e follia.
Ed ecco il dialogo fra giornalisti e psichiatri che, nella suggestiva cornice del chiostro del liceo Foscarini a Venezia, ha visto innanzi tutto protagonista “La storia di Antonia” – titolo al libro di Dario Stefano Dell’Aquila e Antonio Esposito – quale paradigma di dell’inferno vissuto da una donna che a causa di un banale diverbio è stata internata nel manicomio criminale di Pozzuoli, da dove non uscì più. Antonio Bernardini morì nel letto di contenzione dove era legata: a ucciderla le ustioni riportate nel rogo che lei stessa provocò per urlare la sua disperazione. Aveva 41 anni, era il 1974. Il suo sacrificio, atroce e crudele, servì a portare all’attenzione dell’opinione pubblica la realtà straniante e disumana dei manicomi criminali: l’opg puteolano fu chiuso, ma per la fine orribile di Antonia il processo si concluse senza alcun colpevole.
L’iniziativa, promossa dal Sindacato giornalisti Veneto, su iniziativa di Anna Poma presidente della cooperativa ConTatto, nell’ambito della IX edizione del Festival dei Matti, ha visto a confronto, insieme a Dell’Aquila ed Esposito, Carlo Muscatello, giornalista, presidente dell’Assostampa del Friuli Venezia Giulia, e Giovanna Del Giudice, psichiatra, presidente di ConfBasaglia.
“Ci legavano come Cristo in Croce” diceva Antonia. E Giovanna Del Giudice, che lavorò con Basaglia a Trieste, ha percorso quegli anni nel corso dei quali spesso era obbligatorio legare i malati con crisi importanti e di come sia stato complesso e arduo superare barriere e pregiudizi di medici, infermieri e anche familiari. La sua esperienza l’ha riportata nel libro “E tu slegalo subito” sulla contenzione psichiatrica per far comprendere l’importanza tanto del supporto farmacologico quanto del contatto umano: “E’ una strada difficile, molto difficile, ma vale la pena percorrerla”. Muscatello invece, dopo aver spiegato come e quanto l’attuale organizzazione del lavoro giornalistico renda quasi impossibile fare inchieste e approfondire tematiche anche scomode – organici redazionali ridotti, collaboratori esterni sottopagati e sfruttati – si è soffermato sulla “Carta di Trieste” varata nel 2010 per indicare una serie di regole deontologiche sulle tematiche del della psichiatria e fatta propria dall’Ordine nazionale dei giornalisti e alla Federazione nazionale della Stampa. Il testo del “codice etico per i giornalisti e gli operatori dell’informazione sulle notizie concernenti cittadini con disturbo mentale e questioni legate alle salute mentale in generale” fu redatto nel parco di San Giovanni che un tempo ospitava il manicomio all’interno del quale si concretizzò la “rivoluzione basagliana” che poi sfociò, appunto, nella Legge 180.
“Sono passati otto anni – ha detto Muscatello – ma questo documento così importante non è ancora abbastanza conosciuto dentro e fuori la categoria. Serve rilanciarlo. Serve un impegno comune per farlo tornare non solo d’attualità ma strumento indispensabile per chi fa o intende fare il giornalista”.
Peccato che fra il pubblico a latitare fossero proprio i giornalisti. Più che al disinteresse all’indifferenza, preferiamo dare la colpa all’orario, il tardo pomeriggio, imposto nella calendarizzazione del programma.