Quello che ha rappresentato per lo Stato

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di Ignazio De Francisci

Dopo ventisei anni dall’assassinio di Giovanni Falcone mi viene chiesto di raccontare cosa fosse il “metodo Falcone”. Ho esitato a lungo prima di accogliere la richiesta di Attilio Bolzoni perché mi sembrava di dire sempre le stesse cose e quindi essere poco utile o, peggio, inutilmente ripetitivo.
Poi ci ho ripensato, e ciò sia per la cortese insistenza di Bolzoni sia perché sempre più spesso, incontrando giovani colleghi o studenti, specie qui in Emilia Romagna, mi rendo conto quanto la figura e le opere di Giovanni Falcone siano poco conosciute e quindi non siano diventate memoria collettiva.
Troppo poco si sa di lui e quindi torno a parlare di lui, di quello che ha rappresentato per l’azione dello Stato italiano contro la mafia.
Troppe volte, quando dico che il 23 maggio devo essere a Palermo, mi si chiede il perché; questa data non è entrata nella comune memoria e invece dovrebbe essere scolpita nella coscienza di ogni italiano.
Il segreto del metodo Falcone non aveva nulla di segreto; era tutto nella persona di Falcone, nelle sue qualità umane prima ancora che professionali. La sua assoluta serietà nel lavoro, impegno totalizzante di tutta la sua vita.
Lavorare con lui, che per me fu un grande privilegio, significava adottare i suoi ritmi di lavoro o almeno cercare di avvicinarsi a quelli. Falcone non aveva hobby, passatempi, non giocava a calcetto, non scalava montagne, lui stava in ufficio. Le trasferte di lavoro, anche all’estero, con Falcone sono state per me una scuola di elevato livello, con esami continui, con lui sempre in prima fila e tu dietro a seguire, a imparare, a stare zitto, a fare domande dopo, nelle pause.
Si imparava a interrogare i detenuti, con calma, a volte col sorriso, sempre con serenità e rispetto. Mi tornano in mente mille episodi, alcuni anche divertenti, che per me hanno significato apprendimento di tecniche, di stile, di vita professionale.
La prima trasferta a Milano con lui, interrogatori nella sede della Criminalpol. Gli chiedo il permesso, a fine pomeriggio, di andare in piazza Duomo, non ci andavo dagli anni dell’infanzia. Gli chiedo di andare insieme, mi risponde di no: vai tu, io devo finire di leggere qualche carta. Lui non mollava mai. E poi ancora a Marsiglia, seconda metà degli Anni Ottanta, indagine per un traffico di stupefacenti tra Italia, Francia e Stati Uniti.
La polizia francese ci invita a pranzo prima degli interrogatori fissati nel pomeriggio; era una splendida giornata di sole, ristorante sul mare, mi ricordo ancora quasi tutto il menu. Lui mangia come tutti, ma finito il pranzo è pronto per iniziare a lavorare, io molto meno, cerco di stare al passo, ma con esiti molto modesti. Quel giorno ho imparato che quando si lavora, meno si mangia e meglio è. Lui capì la mia difficoltà, non mi disse nulla, ma io sapevo che aveva capito e, almeno quella volta, perdonato. E poi la sua lealtà nei confronti di tutti i colleghi, specie quelli giovani, che trattava con rispetto e con grande umanità. Mi correggeva qualche mio scritto sempre in punta di piedi, senza commenti sgradevoli, con brevi tratti di penna stilografica.
Non sopportava i superficiali, gli spregiudicati, gli arruffoni. Era coraggioso come sanno esserlo le persone serie che hanno consapevolezza dei rischi che corrono, ma credono di avere gli strumenti per superarli. Ricordo perfettamente, durante un interrogatorio di alcuni mafiosi americani negli Stati Uniti, le minacce che uno di questi gli rivolse; in tono untuoso e con la faccia che dice più delle parole, in perfetto stile mafioso.
Io percepii la serietà della situazione, ma non lo vidi particolarmente preoccupato, ma conscio che quella inchiesta aveva smosso acque stagnanti.
Aveva una fiducia illimitata nel rapporto con gli organi investigativi degli Stati Uniti, preparava con precisione ogni viaggio oltre Atlantico tutte le carte, le domande pronte, l’elenco degli atti da chiedere ai colleghi americani. Si entusiasmava financo del caffè americano che ci veniva offerto ovunque con generosità. Apprezzava quel sistema giudiziario, ma senza le approssimazioni utilizzate da chi vuole importarlo da noi solo nei limiti della convenienza del momento.
Sognava un pubblico ministero nuovo, non poliziotto ma che guidava la polizia giudiziaria, che partecipava attivamente alle indagini, delegando solo l’indispensabile, interrogando imputati e testi, e soprattutto conoscendo ogni carta del processo.
Sono passati 26 anni. Che ne è dell’insegnamento di Falcone? Quanto è stato realizzato della sua visione del mondo giudiziario? Non sono il più indicato per rispondere a queste domande. Certamente il Ministero della Giustizia (dove egli dette il meglio di sé), negli anni, ha portato avanti molte delle sue idee e i metodi di indagine da lui inventati e sperimentati sono stati diffusi in tutte le Direzioni Distrettuali Antimafia, organismo che lui ideò e che ha consentito di accentrare in sede distrettuale le indagini di mafia, obiettivo che oggi sembra facile aver raggiunto, ma che, allora, fu una rivoluzione e che ha impiegato anni per funzionare a regime.
La Direzione Nazionale Antimafia, altro frutto delle sue idee, anche se diversa da quella da lui pensata, si muove comunque nel solco del metodo Falcone e del suo esempio. E non è poco.

Da mafie


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