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Peppino Impastato 40 anni dopo, lo Stato celebra la sua memoria ma archivia i depistaggi

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Se la mafia uccide solo d’estate, Peppino Impastato fu un delitto imperfetto. Se ne accorsero al volo gli amici del militante di Cinisi quando la notte del 9 maggio 1978 si ritrovarono in un drammatico depistaggio che si stava consumando nel regno di Badalamenti, mentre l’opinione pubblica e la stampa, nutriti da false notizie, raccontavano il funerale di un terrorista che aveva attentato alla sicurezza pubblica. La torbida rete di depistatori ancorché goffa è rimasta tuttora impunita, ma i compagni di viaggio già poche ore dopo l’assassinio erano sulle tracce di brandelli di verità e giustizia per l’amico fraterno. Una missione controvento negli anni in cui il procuratore generale di Palermo liquidava la mafia come un’entità astratta e Peppino Impastato era esploso da solo. Suicidato. L’infamante pista di un’azione sovversiva che il militante di Democrazia proletaria avrebbe progettato sui binari della ferrovia Palermo-Trapani fu chiara all’indignata comitiva di attivisti quando i carabinieri si precipitarono a casa di mamma Felicia per requisire libri e numeri di “Lotta continua” del figlio Peppino, il testo di Erich Fromm Anatomia della distruttività umana, lettere e perfino qualche poesia, mentre risparmiarono le case dei mafiosi e le cave di pietra della zona del delitto, notoriamente gestite dai clan e da cui fu subito evidente provenisse l’esplosivo.

Su ordine del maggiore Antonio Subranni portarono via in modo illegale anche appunti e ritagli di giornale tra cui quelli che Impastato conservava sulla strage della casermetta di Alcamo Marina, pochi chilometri da Cinisi, in cui due anni prima furono crivellati i carabinieri Carmine Apuzzo e Salvatore Falcetta.

Quarant’anni dopo la ricerca di giustizia, seppur con travaglio, è stata in parte saldata con l’ergastolo al boss Tano Badalamenti. Resta l’ombra pesante di chi ha depistato e ignoto il motivo. Di tutto quel materiale sequestrato il fratello Giovanni Impastato si è visto restituire solo qualche volantino, il suo esposto alla procura sul destino di quei documenti ha aperto una nuova voragine giudiziaria. Seppur con 35 anni di ritardo i magistrati hanno ricostruito la cronaca di un’indagine al contrario e smascherato depistaggi consumati nelle ore calde dell’omicidio, clamoroso quello sulla casellante di turno del passaggio a livello la notte del 9 maggio, Provvidenza Vitale, testimone chiave mai ascoltata perché ritenuta irreperibile ma che in realtà non si era mai mossa da Cinisi. E’ stata interrogata a quasi 90 anni, quando la memoria era ormai sbiadita.

Subranni, 86 enne generale in pensione, è indagato per favoreggiamento, i sottufficiali dell’Arma Carmelo Canale, Francesco De Bono e Francesco Abramo per falso. I reati viaggiano verso la prescrizione e la procura di Palermo ne ha chiesto l’archiviazione.

I compagni di Peppino come Andrea Bartolotta, Salvo Vitale, Marcella Stagno, Paolo Chirco, Giovanni Riccobono, a quei carabinieri non hanno mai creduto. Sui muri di Cinisi, all’indomani del delitto comparve un manifesto: “L’omicidio ha un nome chiaro: Mafia”.

Qualcuno ricorda ancora le budella di Peppino penzolanti dai fili elettrici e le tracce di sangue sulle vegetazione che scrutava la ferrovia . Pino Manzella nel ’78 era il grafico della compagnia, quello che realizzava vignette e copertine, l’artista che ha concepito con i compagni l’idea del celebre striscione “La mafia uccide, il silenzio pure” esibito a Cinisi un anno dopo l’omicidio nella prima manifestazione nazionale contro la mafia. Insieme agli amici di Peppino due giorni dopo il delitto raccolse brandelli del suo corpo in due buste, si spinse nel casolare vicino ai binari e si accorse di almeno sei tracce di sangue su altrettante pietre. Alterare la scena del crimine fu del resto il primo atto per depistarle indagini: due pietre insanguinate e un mazzo di chiavi ritrovati dal necroforo comunale e consegnate ai carabinieri, sparirono.

“Prendemmo un paio di quelle pietre e le conservammo nella mia casa di campagna per una notte. La mattina avvertimmo il professor Ideale Del Carpio, anziano e illustre docente di Medicina legale che mandò uno studente a prenderle, la sera la mia casa fu messa a soqquadro da ignoti. Il sanguè risultò poi quello di Peppino Imapastato”. Il trentenne militante era stato tramortito nel casolare e trascinato moribondo sui binari per inscenare il falso attentato.

“Il medico legale si recò con il magistrato e i carabinieri nel casolare da cui prelevarono un’altra pietra e un sedile di pietra macchiati di sangue: dovevano diventare subito la prova ufficiale di un omicidio se il maggiore Subranni non avesse fatto redigere un verbale in cui di quei reperti non c’era traccia”. Subranni ha sempre respinto le accuse di depistaggio, intanto il 20 aprile scorso è stato condannato dalla Corte di Assise di Palermo a 12 anni di reclusione nel processo sulla cosiddetta “Trattativa Stato Mafia”.

Si deve al giudice Rocco Chinnici una svolta 9 mesi dopo ma ci sono voluti 22 anni per la sentenza di condanna. L’impulso decisivo alle indagini fu dato dal Centro siciliano di documentazione di Palermo fondato da Umberto Santino che può essere considerato lo storico del depistaggio e dell’intera vicenda. Che per Giovanni Impastato non deve chiudersi con la prescrizione. Per Manzella, che testimoniò al processo, il caso Impastato invece è ormai chiuso. “Quelle pietre furono trovate il 13 maggio e spedite a Palermo il 25 maggio 1978 e mai analizzate, hanno avuto tanti anni per risolvere la questione. Intanto i figli di Subranni hanno fatto carriera nelle alte sfere, una come portavoce e addetto stampa del ministro Alfano, un altro nei servizi segreti. Eppure noi siamo stati fortunati rispetto a altri casi di depistaggio, almeno Peppino ha avuto giustizia”. Magistrato di primissimo livello, Aldo De Chiara, già procuratore aggiunto a Napoli e consulente uscente della Commissione parlamentare antimafia (che nel 2000 approvò una relazione sulle responsabilità di rappresentanti dello Stato nel depistaggio), apre uno spiraglio politico.

“La Commissione parlamentare non deve perseguire specifiche responsabilità penali – avverte De Chiara – m anche se i reati sono prescritti il parlamento ha il diritto e dovere di proseguire in modo autonomo rispetto al processo penale e chi denunciò il depistaggio nel delitto Impastato e non fu ascoltato, può diventare testimone se ha nuovi elementi. Occorre una sensibilizzazione anche della stampa”.

Il casolare dove è stato ucciso Peppino è un rudere affidato alle sterpaglie, di proprietà di una ricca famiglia di Cinisi e vincolato dalla Regione come bene di interesse pubblico. Nei prossimi tre giorni sarà aperto al pubblico e accoglierà scolaresche da tutta Italia, da nord a sud una ventata d’aria pulita di fronte allo scalo “Falcone e Borsellino”. L’Associazione Peppino Impastato da tempo ne chiede l’esproprio e l’utilizzo come presidio antimafia. Carlo Bommarito e Pino Dicevi, presidente e segretario dell’associazione, guidano la battaglia per l’acquisizione da alcuni anni. “In questi giorni sarà teatro della solita passerella istituzionale – taglia corto Bommarito  e la figlia del proprietario ha provveduto a farlo pulire per l’occasione. Passata la vetrina si spegneranno le luci e anche il casolare come la memoria di Peppino tornerà nel dimenticatoio”.


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