Nel dicembre del ’97 la Rai presieduta da Enzo Siciliano decise di dare un segnale di novità: per far capire che il servizio pubblico non disdegnava affatto la cultura, ed anzi era capace di scelte che andassero contro la dittatura dell’Auditel, pensò di piazzare in diretta serale su Rai1 il Macbeth di Verdi dalla Scala, a costo di far slittare l’appuntamento canonico con l’informazione delle 20. Dire che al Tg1 non gradirono il cambio di palinsesto sarebbe un pietoso eufemismo. La redazione minacciò lo sciopero ed ottenne una convocazione a tempo di record a viale Mazzini. Del CdR, la rappresentanza di base dei giornalisti, era presidente Paolo Giuntella, che all’appuntamento con la dirigenza aziendale si presentò armato non solo delle buone ragioni della testata: aveva portato con sé una raccolta di cd di non ricordo più quale autore classico, da regalare alla controparte Rai perché nessun dirigente pensasse che alla base della protesta del Tg1 c’era una sottovalutazione della musica ‘colta’.
Un gesto che sembrò inusuale, nella dialettica sindacale solitamente ruvida. Avremmo appreso poi che Paolo era capace di originalità culturali ben maggiori. Il giorno del suo funerale la chiesa del Cristo Re fu percorsa da una scosciante risata quando uno dei figli raccontò che al momento della nascita il padre gli aveva regalato i dodici volumi del Diario di Kierkegaard: “perché cresca con tante inquietudini spirituali, nessuna sicurezza e Una Sola Certezza”, diceva la dedica. Ma rimane nel ricordo anche un’altra prestazione ‘bizzarra’: quando in un’assemblea del sindacato giornalisti, convocata per denunciare anche gli attacchi che venivano portati all’autonomia del servizio pubblico, decise che la parola parlata non era sufficientemente incisiva, e dunque usò la seconda parte del suo intervento, nello stupore generale, per cantare Oh freedom, il gospel dei neri americani. E lo cantò tutto.
Passione autentica per la libertà dell’informazione. Passione autentica per un servizio pubblico che non si rassegnava a veder lottizzato, e che voleva fosse soggetto editoriale più libero degli altri, proprio perché di tutti (‘bene comune’ non era espressione tanto in voga allora, ma la sostanza era quella). Una passione che non accettava di praticare sconti nemmeno in nome di eventuali contiguità politiche. Paolo ha attraversato a schiena dritta non solo gli anni del conflitto di interessi praticato, della pressione massiccia del partito-azienda, ma anche gli anni in cui nell’area progressista guadagnava consensi l’idea che la Rai dovesse perdere un po’ della sua ‘diversità’ e che non si dovesse guardare troppo per il sottile nel raggiungimento di certi obiettivi di ascolto: coi risultati di omologazione di cui alla lunga abbiamo potuto misurare gli effetti, anche in termini di legittimazione del servizio pubblico.
La sua idea di informazione la si può ricomporre agevolmente mettendo in fila coloro che hanno vinto, da quando lui non c’è più, il Premio che Articolo 21 ha scelto di intitolare al suo nome: dai “mostri sacri” del giornalismo, come Albino Longhi o Sergio Zavoli, a coloro che il diritto dei cittadini a conoscere lo hanno difeso sui territori, magari contro le minacce della criminalità organizzata. Giornalisti o no che fossero, secondo la lezione anticorporativa appresa trent’anni fa alla nascita del Gruppo di Fiesole, di cui fu uno dei soci fondatori.
Perché la passione per la libertà e per i diritti non è roba di una categoria. E’ una passione ben più grande, che ha scosso la storia dei nostri tempi, in modo talvolta grande e tragico. Paolo Giuntella era particolarmente legato alla testimonianza di Oscar Romero, arcivescovo di El Salvador ucciso sull’altare per la sua scelta di campo a favore degli ultimi. Il 14 ottobre prossimo verrà dichiarato santo, insieme a papa Paolo VI. La notizia è stata diffusa sabato scorso, mentre una gran quantità di amici di Paolo si ritrovava a ricordarlo a dieci anni dalla sua scomparsa. In molti abbiamo pensato quanto sarebbe stato felice di saperlo. E magari avrebbe cantato….