Di Pino Salerno
A 14 anni appena, Wesal Sheikh Khalil aveva già pianificato il suo funerale. L’adolescente palestinese aveva confessato a sua madre che se fosse stata colpita a morte durante le proteste al confine di Gaza con Israele, avrebbe voluto essere sepolta proprio là, nel luogo dove sarebbe stata uccisa, o al massimo accanto alla tomba del nonno. “Credeva che la morte fosse migliore di questa vita” ha detto Reem Abu Irmana, il giorno dopo aver perso la sua figlia più giovane. “Ogni volta che partecipava a qualche manifestazione pregava Allah di essere una martire”. La piccola Wesal è una delle 63 vittime uccise dai soldati dello Stato ebraico di Israele lunedì scorso, mentre a Gerusalemme si festeggiava l’apertura dell’ambasciata americana, atto che ha sconvolto il mondo e che ha aperto il Vaso di Pandora delle proteste a Gaza. I soldati israeliani hanno sparato ad altezza d’uomo contro decine di migliaia di palestinesi raccolti al confine che circonda e blocca l’enclave palestinese.
Era davvero una bambina Wesal, la sua storia è narrata dal quotidiano britannico The Guardian. Aveva compiuto 14 anni a dicembre. Sua madre, ora che è stata uccisa, confessa al Guardian, che ella era stata ispirata dalle manifestazioni e che aveva cominciato a pensare al martirio. Per un decennio, Israele ed Egitto hanno imposto fortissime restrizioni ai movimenti di beni e persone a Gaza, e Abu Irmana, la madre di Wesal, dice ora che la vita è diventata insostenibile per i suoi sette figli, anche perché ogni due o tre mesi la famiglia è costretta a spostarsi non avendo i soldi per pagarsi l’affitto. “Che Allah aiuti la gente che vive qui”, afferma Abu Irmana, parlandone circondata dagli amici e dalla famiglia, stretti in una stanza. Per tre generazioni quella famiglia ha vissuto in un campo profughi a Gaza, in un quartiere che i residenti chiamano Blocco D.
Wesal non ha mai potuto lasciare Gaza, eppure era una ragazzina piena di gioia, dice ora sua madre. Aveva scritto una canzone per il prossimo compleanno della madre, che aveva imparato a memoria e che cantava nei suoi ultimi giorni di vita. Suo fratello, di 21 anni, l’aveva avvertita di non partecipare alle proteste, minacciandola per gioco che le avrebbe spezzo le gambe se ci avesse provato. Ma lei era testarda, dice ora sua madre. Diceva: “anche con una sola gamba ci andrei lo stesso. E se me li spezzi entrambe, ci vado strisciando”. L’altro fratello undicenne di Wesal, Muhammad, era con lei quando è stata uccisa. Dice che qualcuno le aveva dato delle tronchesi e che Wesal è stata colpita alla testa quand’era vicina alla recinzione. Il piccolo Muhammed avrebbe voluto tornare alle manifestazioni di martedì, molto più ridotte nel numero, ma sua madre glielo ha proibito. “La mia vita è la stessa”, dice Abu Irmana, a chi le chiede dei suoi progetti per il futuro, “l’unico cambiamento è che non ho più una figlia”.
A Gaza City martedì i negozi erano aperti, vendevano merendine e angurie, e i bambini giocavano a calcio. Le strade dell’enclave erano stranamente più tranquille del solito. “Come fossimo in tempo di guerra”, dicono i residenti. Accanto alla piccola dimora di Wesal, un’altra famiglia piange un altro giovane palestinese ucciso: Yazen al-Toubasi, 23 anni, che lascia una moglie e un figlio di due anni. Il padre di Toubasi, Ibrahim, seduto coi vicini a vegliare suo figlio ucciso dalle pallottole dell’esercito israeliano, afferma, con voce bassa e rotta dal pianto: “tutto il mondo sta schiacciando questo piccolo posto che si chiama Gaza. È un dovere nazionale per tutti i palestinesi continuare a protestare”. Toubasi non era nelle vicinanze della recinzione, ma se ne stava seduto in una tenda a centinaia di metri quando è stato colpito a morte. E suo padre commenta con amarezza: “se anche avesse voluto lanciare una pietra contro i soldati non ci sarebbe mai riuscito”.
I funerali dei 63 uccisi di Gaza sono stati pagati da Hamas, che ha anche aiutato le famiglie con delle donazioni in denaro, senza trascurare le famiglie dei feriti. Una mossa che Israele ha perfino condannato. Eppure, né Wesal, né Toubasi, né le loro famiglie erano affiliate ad Hamas, e dunque nessuno potrebbe accusarli di essere dei terroristi. Insomma, due vittime che negano alla radice le giustificazioni di Israele secondo le quali sparare ad altezza d’uomo i palestinesi non è stato altro che una forma di difesa. E a questa ignobile, incivile tesi hanno abboccato gli americani di Trump, e qualche altro brillante governante occidentale. È stato un genocidio di palestinesi, questo racconta la storia amarissima e triste di Wesal e di Toubasi, raccontata da un giornale come il Guardian. Non si può che chiudere con le parole del padre di Toubasi: “la causa palestinese è stata abbandonata, ed ora è tornata sotto i riflettori. Da domani tornerò a Yazen, alla frontiera, e pure domani l’altro, l’altro ancora”…