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Mirella Gregori: una verità in tre chilometri. Ritorno all’ex “Bar Italia”. Insieme ai servizi segreti (3° parte)

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Riportando tutto a casa. Anzi, sotto casa. All’inizio di via Nomentana. Dove c’era l’ex “Bar Italia”. I tre chilometri lungo i quali cercare la verità sulla scomparsa di Mirella Gregori ci riconducono al punto di partenza del nostro “viaggio-inchiesta”. Un tragitto che si completa grazie a clienti di primo piano: i servizi segreti. Secondo un appunto dell’allora SISDe (pubblicato in esclusiva dal sottoscritto su “Cronaca&Dossier.it” nel 2016), il 26 ottobre 1983, una fonte del servizio ritenuta “attendibile” riportò alcuni stralci di una conversazione udita nel locale tra la figlia dei proprietari e un’altra ragazza, “probabilmente commessa in un negozio limitrofo”, nella quale la prima diceva all’altra: “…certo…lui ci conosceva, contrariamente a noi che non lo conoscevamo… quindi poteva fare quello che voleva…come ha preso Mirella poteva prendere anche me, visto che andavamo insieme…”.

Sebbene all’imperfetto, l’atto fu scritto utilizzando l’indicativo e non il condizionale. Ciò significa che riportava un fatto accaduto e non un’ipotesi. Un particolare che spinge a chiedersi: a chi si riferivano quelle parole? In prima battuta, considerando i racconti dalla madre di Mirella in sede d’indagine, il pensiero corre subito al “signore degli aperitivi”. Se così fosse, la vicenda s’insedierebbe su un versante di natura sessuale dalla duplice direzione: quella del maniaco solitario, che abusa di un’adolescente facendone poi scomparire il corpo, oppure, ricordandosi che la mamma vide quel soggetto anche nella chiesa di San Giuseppe, quella dell’adescatore di minorenni per conto di qualche personalità ecclesiastica dalla carne debole. Uno scenario per niente peregrino, alla luce anche dei recenti scandali cileni.

Però quella conversazione carpita dai nostri 007 civili del tempo potrebbe riguardare anche qualche altro frequentatore dell’ex “Bar Italia”. Da altri documenti dell’inchiesta emerge come, la settimana precedente la sparizione di Mirella Gregori, nel locale, dove la stessa nell’occasione era presente, entrò un adulto che chiese, in un italiano con inflessione straniera, notizie sul suo conto poiché l’aveva già notata in un bar di via Volturno (quello di famiglia?). In base al contributo dell’allora cameriere del bar, Giuseppe C., nell’ottobre 1986 fu realizzato anche un identikit dell’individuo: capelli castani scuri, carnagione olivastra, altezza tra l’1,70 e l’1,75 ed età non superiore ai quarant’anni. Poteva essere lo stesso uomo menzionato ai carabinieri nel giugno 1985 da Giuseppina C., condomina del palazzo dei Gregori? Perché questa “pochi giorni prima della scomparsa di Mirella Gregori aveva notato per 5 o 6 volte, seduto davanti a un bar sito in via Nomentana nr. 8* (l’ex “Bar Italia”, ndg), un giovane, che a suo dire osservava le persone che uscivano ed entravano allo stabile al civico 91 (il palazzo dei Gregori, ndg)”. La donna aggiunse di non averlo più visto dopo la scomparsa di Mirella però, quando la signora Arzenton le mostrò un articolo de “Il Tempo” del 28 ottobre 1983 corredato dagli identikit dei due ceffi presenti al bar di via Volturno nel giorno dell’inaugurazione, lo riconobbe in “quello con i capelli lisci e carnagione olivastra”.

Sommando a lui e al “signore degli aperitivi” anche la figura del giovane biondo e riccio, presente con inquietante ricorrenza nella vita di Mirella Gregori nei due mesi precedenti la sua sparizione, si ottengono una marea d’indizi intrecciati in continuazione fra loro, che fanno rimbalzare la ricerca della verità lungo i tre chilometri che dalla chiesa di san Giuseppe a via Nomentana, passando per l’ex “Bar Italia”, arrivano al bar di via Volturno.

Una distanza tanto breve quanto nitida per capire, oltre a dove si annidi la soluzione del mistero di Mirella Gregori, anche dove non cercarla. Per esempio, all’estero – ex URSS, ex DDR, Bulgaria, Turchia – in nome di un sequestro a sfondo internazionale per ricattare lo Stato italiano che, a parte esser stato escluso dalla magistratura nella sentenza d’archiviazione sul caso del 1997, è respinto anche dalla logica degli eventi: a differenza di quanto avviene per ogni rapimento, estorsivo o politico che sia, nessuna organizzazione terroristica riconoscibile e qualificata (tipo le nostre “Brigate Rosse” o la tedesca “RAF”) rivendicò mai la detenzione della ragazza.

Inverosimile anche che le ragioni della scomparsa fossero dovute a un ricatto al signor Gregori per un prestito di denaro, poi mai rientrato, necessario alla ristrutturazione del bar. Questa tesi, paventata dal 2013 al 2016 e che chiama in causa anche personaggi vicini a Enrico De Pedis e all’ambiente della Banda della Magliana, sosterrebbe addirittura che la stessa Mirella avesse acconsentito alla sua sparizione per poi incontrarsi, tra il 1993 e il 1994, in un camper dentro villa Borghese, con la madre che però, a sua volta, avrebbe taciuto l’episodio a casa. A parte che la Banda era solita eliminare direttamente i debitori non ottemperanti, questa versione è smentita dalle parole rilasciate in Procura dalla signora Arzenton nel maggio 1983 – “Mio marito, a cui ho chiesto, mi ha assicurato che non aveva mai ricevuto prestiti di denaro in relazione alle attività di gestione del bar”  – e dallo strazio umano vissuto dalla donna, che fino al suo ultimo giorno di vita, mossa da un amore trasfigurato nella disperazione, si batté con tutte le forze per fornire agli inquirenti più informazioni possibili per il ritrovamento della propria figlia.

In merito alla quale, la polizia, in un rapporto del 27 maggio 1983, scrisse: “Per raggiungere il monumento del Bersagliere (piazzale di Porta Pia, ndg), ha percorso circa 300 metri della via Nomentana; un tratto di strada dove sono ubicati numerosi esercizi commerciali, un cinema, una farmacia ed altro. Data l’ora doveva esserci molta gente, nonché intenso traffico di autoveicoli di ogni genere. […] Si presume che se vi fosse stato un rapimento, sarebbe stato senza altro notato […]. Invece nessuno si è accorto di nulla, compreso i guardamacchine che normalmente sostano sulla strada”.

Parole che ben illustrano come Mirella Gregori, quel pomeriggio del 7 maggio 1983, fu ingannata da qualcuno che le tese una trappola purtroppo perfetta. Un “qualcuno” che era a conoscenza del suo privato, dei suoi punti deboli e della sua ingenuità. Un “qualcuno” che si spacciò col nome di “Alessandro”. Un “qualcuno” che sarebbe individuabile attraverso un’approfondita e perigliosa disamina di quei tre chilometri che abbiamo percorso in questa nostra inchiesta. Perché molte volte le risposte alle nostre domande sono più vicine di quel che immaginiamo. Un compito che però non spetta al giornalismo, deputato a dipingere lo sfondo di un quadro tratteggiandone il profilo dei soggetti presenti, bensì a chi possiede le giuste competenze investigative. E che, qualora si riaprirà l’indagine, sarà chiamato ad assegnare un nome a quei soggetti, così da poter intitolare questo quadro come vorrebbero i familiari di Mirella Gregori e tutte le persone dotate di sensibilità civile: la verità.

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