Luigi Pintor, già quindici anni dalla sua scomparsa. Se ne è andato il 17 maggio del 2003 e non è tanto la sua assenza a farsi sentire, anche se ovviamente pesa e ci induce a ragionare sul degrado morale, culturale e politico di questa stagione, quanto il suo lucido sguardo sul mondo a interrogarci ancora.
Rileggendo le riflessioni di Pintor, il suo genio creativo, le sue intuizioni, le sue definizioni sferzanti, la sua abilità nel definire i titoli e nello scovare sempre l’argomento del giorno fra mille fatti e sollecitazioni, si avverte tutta l’attualità di un pensiero forte e autorevole del quale oggi avremmo più che mai bisogno.
Analizzare la figura di Pintor, oltretutto, ci dà modo di osservare la crisi della sinistra da un’altra angolazione, mettendo in evidenza la frattura che si è venuta a creare negli ultimi tre lustri fra il mondo della politica e quello della cultura o, per meglio dire, il progressivo distacco degli intellettuali dalla politica.
Se pensiamo che un tempo tutti i partiti erano guidati da intellettuali, se ci interroghiamo sul fervore culturale di certi dibattiti, se andiamo a rileggere certi interventi parlamentari, certi scritti, certe discussioni in cui veniva posto al centro il Paese nella sua complessità e se paragoniamo quella ricchezza alla miseria attuale, ci rendiamo conto che la crisi in atto è molto più grave di quanto non si pensi.
Siamo, infatti, al cospetto del fallimento epocale di una storia, di una visione del mondo, di un’idea, siamo di fronte alla rassegnazione allo status quo, alla perdita dell’aspirazione a migliorare il pianeta, alla tacita accettazione delle disuguaglianze, all’accontentarsi di una mera gestione del potere, senza slancio, senza ambizione, senza alcuna passione civile, siamo dunque di fronte allo smarrimento delle ragioni ideali per cui era nata e aveva un senso la sinistra.
Del resto, perché nacque il manifesto? Cosa indusse i vari Pintor, Rossanda e Natoli a lanciarsi in quest’avventura eretica che costò loro l’espulsione dal PCI? Cosa, se non un ardente desiderio di libertà, se non la comprensione dei tempi nuovi, se non l’aver capito, prima e meglio degli altri, il Sessantotto e le sue conseguenze, a cominciare dal fatto che nulla sarebbe stato più come prima?
Il gruppo del Manifesto era arrivato alla frontiera degli anni Settanta animato dalla fondata convinzione che il vecchio sistema politico non bastasse più, che si dovesse ascoltare la rabbia delle nuove generazioni, che ad esse non bastasse più solamente il pane ma volessero pure le rose, che quella rabbia ribollente e furiosa, se non ascoltata, si sarebbe trasformata in una barbarie dai contorni imprevedibili, che nel mondo era in atto una rivoluzione dei costumi che nessun dogma avrebbe potuto arginare. Avevano capito, in poche parole, che la società chiedeva un maggior protagonismo, che si stavano affacciando alla vita pubblica ceti sociali nuovi, che erano cambiati i linguaggi, i toni, i modi e le prospettive stesse della politica, che i partiti, per sopravvivere, si sarebbero dovuti aprire e mettere a disposizione di una massa di persone non controllabile ma comunque in grado di generare novità, cambiamento e positive rotture di schemi ormai vetusti.
Avevano visto la barbarie di Praga e avevano auspicato la frattura con un universo sovietico ormai ingiustificabile e da condannare senza se e senza ma. Avevano visto Allende e avevano abbracciato quell’idea di socialismo, volto all’elevazione dell’uomo e alla comprensione della sua unicità nel contesto di una comunità in cammino. Avevano visto i movimenti giovanili degli anni Settanta e, anziché puntare il dito, avevano teso loro la mano, pur rifiutando ogni forma di violenza e di ribellismo fine a se stesso. Si erano schierati al centro, né con lo Stato né con le Brigate Rosse, perché nel primo vedevano il vero responsabile di piazza Fontana e delle stragi e nelle seconde un abisso d’odio che era quanto di più lontano dalla cultura pacifista e tesa all’inclusione che animava quell’ambiente.
Il PCI, stando attenti a non banalizzare le posizioni politiche di un partito dalle molteplici sfaccettature e con all’interno un dibattito politico di prima qualità, non riuscì ad accettare, più che a comprendere, i tempi nuovi che gli si paravano davanti, finendo così col perdere una generazione e col favorire l’ascesa di un asfittico funzionariato senz’anima che è lo stesso che nei quarant’anni successivi ne ha provocato, salvo poche, lodevoli eccezioni, lo snaturamento, il cedimento e la trasformazione in un mero ingranaggio del potere, senza più alcun desiderio di modificare la direzione di marcia del medesimo.
Luigi Pintor, al pari di Valentino Parlato, aveva compreso prima e meglio di altri anche i cambiamenti che stavano occorrendo nell’economia, al punto che il gruppo del Manifesto era fra i principali interlocutori di Carlo Azeglio Ciampi, di cui apprezzava non solo il profilo pubblico ma anche la scuola azionista dalla quale proveniva e il suo orgoglioso passato nella Resistenza.
Luigi Pintor, quindici anni fa, e un’arte della ribellione costruttiva che dobbiamo assolutamente riscoprire se non vogliamo condannarci all’irrilevanza. Nel suo ricordo un monito e uno sguardo al futuro.
P.S. Un pensiero affettuoso anche ad Alberto La Volpe, scomparso un anno fa. Quanto ci manca quell’idea di mondo!
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