Quasi sessant’anni, con argomenti non molto dissimili, il bersaglio dei benpensanti era stata La dolce vita di Federico Fellini. Per quel film l’Italia si spaccò in due. La destra e i clericali insorsero contro lo scandalo di un regista che calpestava ogni morale e metteva in piazza le vergogne dell’Italia sotto gli occhi degli stranieri. Però Via Veneto diventò la strada più celebre del mondo, attirando milioni di turisti e copiosa valuta estera nelle casse dello stato. Ci furono interrogazioni in Parlamento da parte del Movimento Sociale che pretendeva a gran voce il sequestro e la distruzione della pellicola; l’Osservatore Romano lanciò l’anatema contro il film e il suo autore, gridando in prima pagina un titolo scatolare: “Basta!”. Il direttore del giornale scrisse che non aveva bisogno di andare a vedere la pellicola per giudicarla una ripugnante sconcezza. Alla prima uscita del film al Cinema Capitol di Milano, presenti Fellini e Mastroianni, due ali di folla sbraitante lanciavano rabbiose invettive: “Vigliacco vagabondo, comunista”, e alcuni sputarono loro addosso.
Il pubblico reagì però in maniera del tutto opposta; le sale cinematografiche vennero prese d’assalto e per poter smaltire le lunghissime code degli spettatori fin sulla strada, furono costrette a programmare il film dalla mattina, proseguendo senza interruzioni per tutto il giorno e la notte.
Sullo schermo si vedevano scene inenarrabili. Marcello, il protagonista, andava a fare l’amore con la ricca figlia di un palazzinaro sul letto di una prostituta, ai Cessati Spiriti, estrema periferia di Roma, dove arrivavano a bordo di una sontuosa Buick scoperta. Il protagonista perdeva la testa per una diva americana di origine svedese, “ghiaccio bollente”, una specie di dea in terra che lo precedeva strizzata in un sacrilego abito talare sull’angusta scala a chiocciola che sale alla cupola di San Pietro. Nelle sequenze successive, perdendosi nei vicoli dell’Urbe, la valchiria finiva per immergersi nella Fontana di Trevi mostrando cosce e seni da stordimento. Il padre del protagonista, venuto dalla provincia nella Capitale a trovare il rampollo, flirtava in un night club con una sensuale entraîneuse e cercava di portarsela a letto rischiando l’infarto. Due bambini di borgata, sobillati dai genitori e dal clero, si inventavano di aver visto la Madonna scatenando un’isterica corsa al miracolo con attorno l’indegno caravanserraglio di speculatori e opportunisti. Un ricco intellettuale di eccelsa raffinatezza suonava all’organo la “toccata e fuga” di Bach in una chiesa di geometrica spiritualità, ma poi si tirava un colpo alla tempia nel suo lussuoso appartamento dell’EUR dopo aver sparato ai due figli nei candidi lettini. Nel Castello di Sutri dei principi Odescalchi, i perditempo di via Veneto si aggregavano a una festa di aristocratici annoiati vivendone fino all’alba la deboche, tra accoppiamenti promiscui e sedute spiritiche. A conclusione della storia, si assisteva all’orgia in una villa di Fregene, con ragazze di poca virtù, travestiti, scambisti e lo spogliarello quasi integrale di una signora piacente e spudorata che rinverdiva lo striptease dalla danzatrice del ventre Aiché Nanà, improvvisato al Rugantino davanti a uno sciame di fotografi infoiati.
Si favoleggiava di una Roma da basso impero, decadente, marcia, corrotta, amorale, frutto della fantasia morbosa di un regista che non provava vergogna a sguazzare nella più abbietta perversione sessuale. In una diocesi del Veneto fu appeso un manifesto a lutto in cui si invitava a pregare per l’anima dannata di Federico Fellini. A Rimini, il parroco di una nota chiesa del centro, allontanò dalla funzione domenicale di mezzogiorno la madre del regista, Ida Barbiani, colpevole di aver dato alla luce una figlio tanto depravato. Una decrepita gran dama della nobiltà nera, a Piazza di Spagna, era uscita a catapulta dalla sua lussuosa berlina gettandosi addosso a Fellini e maledicendolo con le parole del Nuovo Testamento contro i seminatori di scandalo: “Sarebbe meglio che ti venisse appesa una pietra al collo e tu fossi gettato negli abissi del mare!”
Padre Arpa il gesuita che ebbe il coraggio di difendere il film scorgendovi una malcelata religiosità, fu allontanato dalla Compagnia di Gesù e minacciato dalla curia di essere sospeso a divinis (cioè di non poter più recitare messa) se avesse ancora osato scrivere o parlare in pubblico di cinema. Il Cardinal Montini, arcivescovo di Milano e futuro papa Paolo VI, si rifiutò di ricevere il regista che aveva atteso per ore un’udienza privata in cui dar conto delle proprie ragioni.
Nel bel mezzo della bufera Fellini continuava a dichiarare con convinzione che il titolo La dolce vita non conteneva nessun intento ironico o di condanna, ma era stato scelto proprio per affermare che la vita poteva essere dolce nonostante tutto.
La sceneggiatura era stata scritta dal regista insieme a Ennio Flaiano (Premio Strega e tra i massimi scrittori italiani), Tullio Pinelli, drammaturgo cattolico, Brunello Rondi, coltissimo intellettuale; e Federico aveva anche consultato Pier Paolo Pasolini per alcune scene, in particolare l’orgia finale.
A distanza di oltre mezzo secolo il film è oggi considerato uno dei massimi capolavori di tutti i tempi, studiato nelle università, compulsato da innumerevoli cineasti stranieri come fonte di ispirazione e di linguaggio. Incassò a suo tempo cifre astronomiche, e traghettò l’Italia ancora arcaica e oscurantista verso una nuova consapevolezza, liberando il cinema dall’ipoteca di una mentalità arcigna e bigotta.
Ho ritenuta opportuna questa lunghissima premessa per arrivare a parlare di Loro, il film di Paolo Sorrentino, perché a me il regista napoletano sembra un affrescatore molto simile a Federico; non certo un suo imitatore, e neppure un proselite, un successore, un discepolo, un epigone; ma un autore originale, figlio del proprio tempo, che avendo metabolizzato la lezione di Fellini è capace di restituirla attraverso un proprio stile inconfondibile. Fellini si esprimeva all’interno di un mondo ancora ‘solido’ nel suo assetto complessivo, nelle sue istituzioni, nel suo equilibrio culturale; Sorrentino si muove invece all’interno di una “società liquida”, secondo la nota definizione della nostra epoca; in un mondo che ha perduto gran parte delle certezze del secolo precedente, investito dall’ uragano dalla rivoluzione digitale cha ha comportato il sovvertimento di ogni regola morale, civile, politica e di comunicazione.
Ed è questo lo scenario che egli descrive, senza moralismi e senza scomuniche, semplicemente guardandosi intorno e rappresentando ciò che vede con un linguaggio per nulla pedagogico, utilizzando i mezzi di cui dispone: una visionarietà e un talento cinematografico che pochi possiedono. Felliniano nell’atteggiamento artistico, Sorrentino ha raccolto da Federico il lascito più segreto, indispensabile e impegnativo, quello dell’artista testimone dei suoi tempi.
Sono passati quasi trent’anni dalla scomparsa di Fellini, tra due anni ne celebreremo il centenario della nascita. Il cinema italiano sembra aver trovato finalmente qualcuno capace di rinnovarne lo sguardo; mi sembra che dovremmo solo rallegrarcene ed evitare di cadere a piè pari nella bagarre dei benpensanti.
Sorrentino sta di nuovo disegnando un orizzonte alla nostra cinematografia; La Grande Bellezza, premio Oscar, ne è stato l’annuncio più convincente.
Nelle sue mani Berlusconi è semplicemente un archetipo, come poteva apparire Trimalcione nel Satyricon di Fellini. E come il tycoon televisivo sarebbe stato rappresentato nell’immaginazione felliniana se il regista avesse avuto il tempo di realizzare il suo progetto su Venezia, nel quale “il re delle televisioni private sta comprando quasi tutta la città lagunare; compra l’Arsenale, la Madonna della Salute, i palazzi più belli e i principali alberghi. È tutto suo; e vuole fabbricare un Bucintoro e attraversare il Canal Grande ribattezzato Canale Cinque.” La storia si concludeva con un finale turbinoso a Piazza San Marco dove aveva luogo la rutilante e corrusca celebrazione del Nuovo Potere. L’affresco veneziano avrebbe conferito valore ancora più universale e profetico ai timori già apertamente enunciati da Fellini in Ginger e Fred e ne La Voce della Luna.
Nella prima parte di Loro, Sorrentino ci racconta il gran bordello del potere. Che tutti abbiamo letto nei giornali, che abbiamo appreso nelle corti di giustizia, che abbiamo verificato nei privilegi e nella corruzione della “Casta”, che abbiamo goduto voyeuristicamente nei talkshow televisivi, che abbiamo spiato nei telegiornali trasformati ormai in telenovelas. Degradati in massa al ruolo di guardoni, abbiamo invidiato con finto disprezzo i bunga bunga, aspirazione massima e per nulla segreta di ogni maschio in servizio permanente effettivo nei saloni di barbiere. Siamo stati edotti su Nicole Minetti, su Sabina Began, sulle Olgettine, sulla “nipote” minorenne di Mubarak, sui solerti ragionieri pagatori, sui poeti di corte promossi a ministri, sui menestrelli alla chitarra incensatori del tiranno, sui magnaccia a tempo pieno approvvigionatori degli harem, sugli agenti artistici che rimboccavano le coltri delle giovani favorite. Ci siamo nutriti degli scarti di quel lauto, interminabile banchetto: ogni giorno una trovata, fino al “Ti amo papi” dell’adolescente napoletana a cui il principe aveva elargito la sua condiscendenza. E con questo biglietto rosa si chiude la prima parte del mega dittico di Sorrentino.
Il quale si abbandona alla narrazione assecondando le sue corde, con una ridondanza fastosa, il gusto della pletoricità espressiva, e l’innegabile abilità di illusionista, allestendo uno scenario altrimenti irraccontabile. E’ la sua cifra, e la cavalca divertito come creatore di atmosfere, di gallerie umane patetiche e iridescenti, di impennate surreali.
Nessun artista è uno storico, ma senza l’arte e impossibile comprendere la Storia.
Felliniano intelligentissimo, l’autore napoletano possiede nella sua biblioteca tutto ciò che è stato scritto su Fellini, conosce a menadito qualsiasi scena dei suoi film, ha riferito in una sapida intervista, nei minimi dettagli, quale sia stata la scena di Otto e mezzo a determinare la sua vocazione cinematografica.
E infatti, nella prima parte di Loro, ha disseminato indizi felliniani quasi subliminali, ancorché lampanti agli occhi di chiunque conosca un poco i film di Fellini.
All’inizio ci viene mostrato un televisore in cui sta andando in onda un tipico telequiz alla Mike Bongiorno, una trasmissione senza audio, interrotta al primo break pubblicitario dalla reclame di salumi e insaccati. Ricordate il Cavalier Lombardoni, produttore del gigantesco zampone che pende dal soffitto della Stazione Termini nelle scene iniziali di Ginger e Fred? Il secondo indizio è la presenza incongrua di un dromedario, indimenticabile icona di Lo Sceicco Bianco. La terza citazione, la più commovente, riguarda un rinoceronte che d’un tratto attraversa correndo lo schermo. Il pachiderma è l’enigmatico messaggio che Fellini ci affida al termine di E la nave va, il suo film sulla fine delle illusioni, sulla dolorosa perdita dell’armonia. In una scialuppa di salvataggio della motonave affondata, Orlando, il reporter scampato al naufragio, rivolgendosi alla cinepresa cioè direttamente al pubblico, confida: “Lo sapete che il rinoceronte dà un ottimo latte?”. Quel nutrimento che proviene da primordiali, remotissime origini della vita, è presumibilmente la poesia, che ci permette di sopravvivere affondando le radici nell’oscuro giacimento dell’inconscio, nel magma dell’irrazionale, per una creatività senza veli.
Tale suggerimento sembra seguire il film di Sorrentino, anche nella sua ipersessualità compulsiva e onnipresente, che ha disturbato verosimilmente qualcuno. Eppure ci troviamo di fronte a una umanità che assiste impassibile, distratta, impotente e annoiata alla perdita del sacro. Di ciò troveremo ancora un segnale, nella seconda parte del film, che ci riconduce immancabilmente a Fellini. Ma ne parleremo nel prossimo articolo, dopo il 10 maggio, illustrando l’opera nella sua interezza.