Nel 2018 ricorre il settantesimo compleanno dall’approvazione da parte dell’assemblea dell’Onu della Dichiarazione universale dei diritti umani. Dichiarazione che, per quanto priva di forza cogente strettamente intesa, ha rappresentato indubbiamente l’inizio di un’epoca definita, per dirla con Bobbio, come “età dei diritti” e che ancora oggi è tanto punto di riferimento quanto presupposto indispensabile di tutte le legislazioni successive in tema di diritti fondamentali. Fra questi ultimi, reso ancor più evidente dallo strascico cruento e doloroso della seconda guerra mondiale, c’è quello della libertà religiosa. Che proprio a partire dalla Dichiarazione universale dei diritti umani si è cominciata a declinare nella sua completezza di diritto contemporaneo: completezza che necessariamente include la libertà di non credere.
Libertà di religione, ma anche dalla religione
Libertà da intendersi anche come libertà dalla religione, quindi, ma quest’ultima – nonostante i settant’anni – stenta ancora a vedersi riconosciuta almeno alla pari della sua “altra metà del cielo”, la libertà religiosa in senso confessional-cultuale. Proprio a inizio di quest’anno, e proprio in occasione dell’ultimo report del Rapporteur Onu sulla libertà di religione, c’è ancora chi ha contestato la sua natura di diritto umano. La libertà dalla religione, infatti, secondo il rappresentante del Vaticano, rivelerebbe nel termine stesso un atteggiamento arrogante e paternalistico nei confronti della religione stessa, che non andrebbe pertanto ricompreso nella protezione offerta dalla libertà religiosa e men che mai nel mandato di garanzia Onu.
Eppure, ancora oggi in 85 paesi del mondo i non credenti sono pesantemente discriminati, in 7 sono attivamente perseguitati, in 12 dichiararsi atei può comportare la pena di morte.
Per fortuna, siamo in Europa. E l’articolo 18 della Dichiarazione universale dei diritti umani è stato invece ripreso e rafforzato dalla Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, nella dimensione di diritto individuale, fino ad arrivare al molto più recente articolo 17 del trattato di Lisbona che impone agli stati membri un paritetico confronto con le confessioni religiose e con le associazioni filosofiche non confessionali. Quanto questa libertà di non credere sia poi nella realtà tutelata e rispettata a ricaduta nelle dimensioni nazionali è altro discorso, raramente affrontato. Mai, fino ad oggi, in un’ottica specifica e strettamente comparativistica di alto profilo giurisprudenziale.
Il convegno internazionale dell’Uaar
Sono queste le premesse del convegno internazionale organizzato dall’Unione degli atei e degli agnostici razionalisti (Uaar) nel marzo di quest’anno a Bruxelles dal titolo L’Europa di chi non crede.
Con grande orgoglio e onore per l’Uaar in quest’ambito di così ampio respiro per la prima volta il tema della libertà religiosa è stato affrontato proprio “dall’altra parte”, con la partecipazione e il patrocinio anche delle istituzioni. A cominciare dal parlamento europeo, nella cui sede abbiamo aperto i lavori, grazie a Viginie Rozier, per proseguire con l’italico Comitato interministeriale per i diritti umani, nella persona del suo presidente, Fabrizio Petri, fino alle nostre “consorelle”, l’europea Federazione umanista europea (Ehf) e l’internazionale Unione internazionale etico-umanistica (Iheu). Ma anche e soprattutto, con la partecipazione di docenti e giurisperiti dalle principali università europee, nonché, nell’ultima sessione, di “militanti” della laicità e dei diritti dei non credenti. Nel tracciare gli attuali modelli di laicità, gli status individuali, i diritti collettivi dei non credenti in Europa, l’obbligata sinossi ha portato alla luce innumerevoli spunti di riflessione, oltre che un piacevole e davvero fruttuoso scambio di informazioni e condivisione umana (e umanista). Sono tante le criticità, sia sotto il profilo individuale che sotto quello di possibilità di aggregazione sociale. Raramente i non credenti vengono considerati come gruppo coeso, nonostante percentuali importanti di loro presenza e di associazioni che li rappresentano, in tutti gli stati dove è in ragionevole misura possibile esserlo, privi di fede. Eppure se le cosmogonie sono differenti da individuo a individuo, e in tal senso non si può certo paragonare la non credenza a una confessione religiosa – soprattutto se dogmatica – anche la dimensione collettiva, dove esistente, andrebbe considerata proprio come facente parte di quel diritto di libertà religiosa che ne vede l’altrettanto libero esercizio in forma associata.
Criticità e modelli
Per quanto riguarda il panorama italiano, proprio al parlamento europeo, con Marco Croce dall’Università di Firenze, si è fatta luce sull’annosissima questione dell’Intesa, chiesta dall’Uaar nel 1996 e contro il cui diniego (di avvio alle trattative) pende attualmente ricorso presso la corte europea dei diritti umani. Molte le criticità, dicevamo, ma anche molti esempi e percorsi di pari dignità per il futuro dei cittadini liberi dalla religione, tanto da farci sperare che questo convegno sia solo il primo di una lunga serie di incontri.
E se si dice che l’Italia è un paese complicato, molti degli ostacoli ad una piena realizzazione dei diritti dei non credenti sembrano invece essere stati superati in un paese che proprio semplice non è, il Belgio, come abbiamo ascoltato da Jean-Philippe Schreiber, università libera di Bruxelles. È stato illuminante poter seguire la disamina di realtà tanto vicine eppure così differenti nell’ampio ventaglio di soluzioni adottate, dalla Francia (Francesco Alicino della Ium Jean Monnet) alla Germania (Thomas Heinrichs della German humanist academy), alla Gran Bretagna, dove nemmeno vige un comune sistema codicistico (Callum Brown dell’università di Glasgow). Ma ancora più peculiare e foriero di necessari approfondimenti l’apporto da paesi dei quali davvero sappiamo troppo poco: dall’Ungheria, con Szabor Hegyi dall’università di Miskolc, Gabriel Andreescu dall’università di Timisoara per la Romania e da Malta, con l’avvocato Philip Manduca. NessunDogma, la casa editice dell’Uaar, spera di poter pubblicare entro l’anno gli atti integrali, con la prefazione del giurista Francesco Margiotta Broglio, tanto dei contributi veri e propri quanto dell’interessantissima tavola rotonda a discussione libera che ha visto tra gli altri la partecipazione, oltre a tutti i relatori precedentemente intervenuti, di Cinzia Sciuto, giornalista di MicroMega.
Libertà di non credere: un problema di diritti
Proprio nei giorni del convegno, 22 e 23 marzo, le donne in Polonia scendevano in piazza contro l’eliminazione completa del diritto all’aborto, diritto negato in radice anche nella succitata Malta e fortemente limitato in almeno cinque stati dell’Ue.
Che sia il diritto all’autodeterminazione femminile, che sia il diritto di non credere, in forma singola o collettiva – diritto che implica anche quello di non avere alcuna religione imposta – l’impressione generale che esce da questo consesso resta sottilmente preoccupante. Il sospetto infatti è che, pur con i dovuti limiti del margine di discrezionalità di ciascuno stato membro, l’espansione territoriale dell’Unione europea abbia portato non al rafforzamento, ma all’abbassamento dello standard minimo di rispetto dei diritti umani fondamentali richiesto, almeno formalmente ma si spera anche concretamente, ai partecipanti. Non è nostro interesse giudicare se e quanto sia proficua un’Europa economica; di sicuro non può esservi una coesione esclusivamente economica disgiunta dal profilo sociale.
Europea in tal senso innanzitutto dovrebbe essere la qualità del godimento dei propri diritti. Anche di quello di non credere.