di Gioacchino Natoli
Nella vita giudiziaria della Palermo dell’inizio degli Anni Ottanta, il modulo del cosiddetto “lavoro in pool” per i processi di mafia è stato una vera necessità per fronteggiare non più sostenibili carenze culturali ed organizzative circa l’essenza del fenomeno mafioso, nel momento in cui venivano uccisi – uno dietro l’altro (a parte esponenti mafiosi, quali Stefano Bontate e Salvatore Inzerillo nel 1981) – uomini politici e rappresentanti dello Stato come Michele Reina (9.3.1979), Boris Giuliano (21.7.1979), Cesare Terranova (25.9.1979), Piersanti Mattarella (6.1.1980), Gaetano Costa (6.8.1980), Pio La Torre (30.4.1982) e Carlo Alberto dalla Chiesa (3.9.1982).
Ma, per giustificare questa affermazione, che potrebbe apparire perentoria, appare utile un flash-back sule vicende degli Anni Sessanta e Settanta nonché sull’iter dei pochissimi processi di mafia (quattro-cinque) celebrati in quegli anni. Del tutto falliti anche per l’assoluta inadeguatezza del metodo di lavoro utilizzato per indagare sul “fenomeno Cosa Nostra”, che non è semplice criminalità ma espressione di un pezzo del “sistema di potere”.
In tal modo, si vedrà che il “metodo di lavoro” non è affatto “neutro” rispetto al risultato che si vuole ottenere, e che lo sviluppo storico degli avvenimenti è stato molto più lineare di quanto si possa a prima vista immaginare.
Ma, soprattutto, tale analisi dimostrerà che nelle dinamiche di Cosa Nostra la “chiave di lettura” è molto spesso riposta in un passato, che per statuto epistemologico dovrebbe essere sempre tenuto sempre presente da chi svolge indagini per avere un corretto approccio interpretativo con i problemi dell’attualità.
TUTTO QUEL POCO (E NIENTE) CHE ERA AVVENUTO PRIMA
Il 30 giugno 1963 (alle ore 11.30) in un fondo agricolo di Ciaculli (al confine tra Palermo e Villabate) saltava in aria una “Giulietta”, imbottita di tritolo, e morivano sette uomini dello Stato, tra carabinieri, poliziotti ed artificieri.
Erano i tempi della cosiddetta “prima guerra di mafia”.
In effetti, per limitarci a pochissimi cenni, di auto imbottite di esplosivo ve ne erano state molte in quei mesi, giacché:
il 12 febbraio 1963 una Fiat 1100 era scoppiata, a Ciaculli, dinanzi alla casa di Totò Greco “Cicchiteddu” (senza fare morti);
il 26 aprile 1963 una “Giulietta” era scoppiata a Cinisi, uccidendo il famoso “don” Cesare Manzella ed un suo fattore;
e quella stessa mattina del 30 giugno 1963 (all’alba) un’altra “Giulietta” era esplosa a Villabate, dinanzi al garage di Giovanni Di Peri, uccidendo il custode ed un passante. Il Di Peri sarebbe poi trucidato nella cd. strage di Bagheria del Natale 1981.
Nonostante il gravissimo sconcerto destato nell’Italia intera dalle vicende del 30 giugno 1963 (invero, due automobili saltate in aria nel giro di sole quattro ore non erano facilmente “digeribili” neppure a quel tempo), il cardinale di Palermo, Ernesto Ruffini, appena pochi giorni dopo – nello scrivere al Segretario di Stato vaticano Cardinal Cicognani – affermava che “la mafia era un’invenzione dei comunisti per colpire la Democrazia Cristiana e le moltitudini di siciliani che la votavano”.
E, nel mese di luglio del 1963, all’Assemblea Regionale Siciliana, l’onorevole Dino Canzoneri (DC) ebbe la tracotanza di affermare che Luciano Leggio era un galantuomo, calunniato dai comunisti sol perché “era un coerente e deciso avversario politico”.
Lo Stato reagì (almeno formalmente) alla strage di Ciaculli, facendo finalmente partire la prima Commissione parlamentare antimafia, che era stata frettolosamente costituita nel febbraio 1963 (Presidente Paolo Rossi), ma che non aveva potuto riunirsi neppure una volta a causa… Continua su mafie