Oggi, sulle pagine dell’edizione americana del New York Times, i lettori potranno trovare la storia di Paolo Borrometi e di tutti gli altri giornalisti italiani minacciati e per questo costretti a vivere sotto scorta. Ma i tanti che vorranno leggerla nel mondo la potranno facilmente trovare on-line.
Può sembrare l’ennesimo articolo dedicato ai colleghi che per il loro lavoro rischiano la vita. Invece non è così.
Perchè far uscire la loro storia su un quotidiano come il New York Times vuol dire in qualche modo aiutare a proteggerli e al tempo stesso rompere l’isolamento in cui vivono.
In questi mesi ci siamo interrogati più volte su come mettere in pratica la cosiddetta “scorta mediatica”. E questo credo sia uno strumento importante.
Far sì che i giornalisti minacciati dalla criminalità organizzata siano conosciuti anche al di fuori dei nostri confini. E di questo ne sono convinti anche gli stessi inquirenti.
Gaia Pianigiani del New York Times, accompagnata dalla fotografa Nadia Shira Cohen, ha seguito Paolo Borrometi nella sua quotidianità e attraverso di lui ha raccontato cosa vuol dire vivere un’esistenza parallela. La ricerca di una normalità nelle piccole cose quando si sa che si è persa la propria libertà. Sappiamo che questa condizione è condivisa da tanti giornalisti in Italia.
Gli ultimi mesi non sono stati facili. La morte di Daphne Caruana Galizia, a Malta, uccisa da un’autobomba. Poi l’omicidio del giornalista slovacco Jan Kuciak e della sua fidanzata. Daphne e Jan, due cronisti che lavoravano su storie difficili, scomode. Avevano subito delle minacce. Ma non avevano alcuna protezione.
In Italia lo Stato c’è. Protegge. E il nostro impegno di “scorta mediatica” deve procedere parallelamente a quello dello Stato.
Chi conosce la mafia sa che quando “emette una sentenza di morte”, difficilmente lascia la pratica inevasa. Ma è importante che questo venga raccontato anche fuori dei nostri confini.
Per questo dobbiamo ringraziare Gaia Pianigiani e il New York Times. Paolo Borrometi racconta di una vita vissuta senza avere le persone amate accanto. “Ma ho il mio bellissimo lavoro”, dice. Il nostro stesso lavoro.