La prima volta dell’Antimafia in Vaticano

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Di Rosy Bindi

L’udienza speciale con papa Francesco è stata uno dei momenti più intensi della mia presidenza alla Commissione Antimafia. Non solo perché era la prima volta che una commissione del parlamento italiano veniva ricevuta in Vaticano, ma perché nel corso della legislatura avevamo avvertito la profonda sintonia con le parole e i gesti di un pontefice che ha impresso una vera e propria svolta nei rapporti tra chiesa cattolica e mafie.
Quella mattina del 21 settembre 2017, nell’anniversario della morte del giudice Rosario Livatino, ci siamo sentiti accolti e incoraggiati nel nostro impegno, confortati da un discorso che ha affrontato i nodi della questione mafiosa e consegnato un vero e proprio programma laico di liberazione dalle mafie.
Il papa ha elogiato la nostra legislazione antimafia che coinvolge lo Stato, i cittadini, le amministrazioni pubbliche, le associazioni laiche e cattoliche, ha ricordato le tante esperienze positive di riuso sociale dei beni confiscati alla criminalità organizzata e sottolineato il ruolo fondamentale dei testimoni di giustizia.
Ma ha esortato “la politica autentica” a fare di più e meglio. La lotta alle mafie deve diventare “una priorità, in quanto esse rubano il bene comune, togliendo speranza e dignità alle persone” e ha ribadito la natura “contagiosa e parassitaria” della corruzione il terreno fertile nel quale le mafie “attecchiscono e si sviluppano” che va combattuta “con misure non meno incisive di quelle previste nella lotta alle mafie”.
Ma la repressione, come abbiamo tante volte abbiamo ripetuto non basta. E il papa ci ha invitato a intervenire sui meccanismi economici e sociali che favoriscono l’espansione dei poteri mafiosi. Bisogna cambiare e trasformare la società agendo su due livelli: quello politico con “una maggiore giustizia sociale” perché le mafie “hanno gioco facile nel proporsi come sistema alternativo sul territorio proprio dove mancano i diritti e le opportunità: il lavoro, la casa, l’istruzione, l’assistenza sanitaria”; e quello economico, “attraverso la correzione o la cancellazione di quei meccanismi che generano dovunque disuguaglianza e povertà”.
Il potere della finanza sovrasta ormai “le regole democratiche” e permette alle mafie di investire e moltiplicare i profitti ricavati da “droga, armi, tratta delle persone, smaltimento di rifiuti tossici, condizionamenti degli appalti per le grandi opere, gioco d’azzardo, racket”.
La politica autentica, contrapposta a quella “deviata, piegata a interessi di parte e ad accordi non limpidi” promuove anche la costruzione “di una nuova coscienza civile, la sola che può portare a una vera liberazione dalle mafie“.
E’ stato questo il passaggio più significativo del lungo discorso che il Papa ci ha rivolto: “Serve davvero educare ed educarsi a costante vigilanza su se stessi e sul contesto in cui si vive, accrescendo la percezione più puntuale dei fenomeni di corruzione e lavorando per un nuovo modo di essere cittadini, che comprenda la cura e la responsabilità per gli altri e per il bene comune“.
E’ infatti un richiamo a sviluppare un impegno davvero corale e quotidiano in una prospettiva di cittadinanza consapevole, in cui possono riconoscersi tutti gli italiani, credenti e non credenti. Forse qualcuno ha pensato che la scomunica ai mafiosi, la condanna più dura mai pronunciata da un pontefice prima di papa Bergoglio, restasse isolata e senza conseguenze nella vita della chiesa. Non è così e ne abbiamo tanti importanti riscontri.
Le parole pronunciate a Cassano alla Jonio – “la ‘Ndrangheta è adorazione del male e disprezzo del bene comune; questo male va combattuto, va allontanato, bisogna dirgli di no. Coloro che nella loro vita seguono questa strada di male, come sono i mafiosi, non sono in comunione con Dio, sono scomunicati”- hanno segnato uno spartiacque, reso evidente la radicale inconciliabilità tra una autentica vita cristiana e l’appartenenza alle organizzazioni mafiose, e stanno producendo una vera discontinuità nella comunità ecclesiale, soprattutto nelle terre di mafia.
Penso alla Conferenza episcopale calabrese, che la nostra commissione ha incontrato a Lamezia Terme nel 2015, che ha imposto una vigilanza sempre più stringente sui rischi di inquinamento mafioso della religiosità popolare. Penso al rifiuto di offerte di denaro di dubbia provenienza e alla bonifica del santuario della Madonna di Polsi. Penso alla prontezza del vescovo di Monreale che, anticipando le decisioni della prefettura, ha negato i funerali a Totò Riina: “I mafiosi sono scomunicati e il canone 1184 del codice di diritto canonico, per evitare il pubblico scandalo dei fedeli, stabilisce che i peccatori manifesti e non pentiti devono essere privati delle esequie”
Anche la chiesa cattolica, come la società italiana, ha percorso un difficile cammino di progressiva consapevolezza della realtà mafiosa e della inaccettabile strumentalizzazione dei simboli e dei riti della fede cristiana.
In questi anni ho sempre ripetuto che i mafiosi non solo sono scomunicati dal vangelo ma anche dalla Carta Costituzionale. E così come non si può essere buoni cristiani e mafiosi, non si può essere buoni cittadini e mafiosi e nell’incontro in Vaticano papa Francesco ce lo ha ricordato.

Da mafie


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