Ci sono dei film che parlano da soli. Dogman ne è un esempio lampante. Una storia tutto sommato semplice, ispirata molto alla lontana ai fatti della cronaca romana legati al “canaro” Pietro De Negri.
Un piccolo uomo, Marcello (Marcello Fonte), cerca di sopravvivere con il poco che ha: un negozietto di toeletta per cani, una figlia, qualche amico di quartiere. Cerca di farsi amare, cerca di portare la figlia al mare, cerca di fare felici i cani e i loro padroni. Ma il destino lo ha messo sulla strada del disperato Simone (Edoardo Pesce), ex pugile suonato e cocainomane che incastrerà Marcello nei suoi incubi portandolo a toccare il fondo.
Intorno a questa semplicità, Matteo Garrone costruisce il suo quadro. Nella cornice giallo-piscio del Villaggio Coppola (lo stesso dell’Imbalsamatore, film quasi gemello di Dogman), regista e sceneggiatori (Chiti, Gaudioso, Garrone) costruiscono il teatro di un’umanità agli sgoccioli, affacciata sul nulla. Escono esaltati gli spigoli tipici della loro romanità: tolleranza, senso dell’amicizia, rabbia, ironia, violenza. Marcello aggiunge qualcosa solo sua, una tenerezza dovuta alla sofferenza infinita nascosta dentro ai suoi occhi persi, simili a quelli dei suoi cani. Quel bisogno di farsi amare che si fa amore a prescindere.
Con una qualità di immagine assoluta (Nicolaj Bruel, un mostro), camera bassa ad altezza protagonista, costruzione centimetrica dell’inquadratura, Garrone e i suoi mettono in scena gli elementi. Poi, come sempre accade con l’arte vera, questi prendono vita propria. E ci raccontano di un’umanità nei suoi valori essenziali: la paura, la violenza, l’amore, la rabbia. Di come si può cadere nell’incubo di un altro, di cosa succede nei brutti paesaggi dell’anima, di come vivono quelle parti di noi dimenticate dentro una gabbia. Il merito è in gran parte di Marcello Fonte (miglior protagonista a Cannes), attore quasi per caso che mette a disposizione di Garrone tutto quello che ha e soprattutto quello che è: un essere umano vivo, con una storia dura alle spalle ancora tutta lì, sulla pelle e negli occhi. Quasi più grande di lui, il “cattivo” Edoardo Pesce, maschera irriconoscibile e altissima.
Dogman ci conferma nel nostro amore profondo per Garrone, nella gioia che proviamo ogni volta che guardiamo il suo lavoro e scopriamo un altro pezzo di verità. Un regista che ama più l’opera e chi la abita, di sé stesso. Il meglio di un romano, il meglio di un uomo, il meglio di un artista.