Questa storia potrebbe essere ambientata in un villaggio nel profondo Sud degli Stati Uniti d’America: l’Alabama, o la Georgia, o il Mississippi. Un paese come Sparta, per dirne uno, con poliziotti, bianchi, ottusi, razzisti, simili a quel Bill Gillespie, magistralmente interpretato da Rod Steiger ne “La calda notte dell’ispettore Tibbs”. Solo che in questa storia, Gillespie non si ricrede per nulla: non c’è l’happy end, con il nerissimo ispettore Virgil Tibbs che riesce a far trionfare verità e giustizia.
Questa storia è la storia vera di un operaio di Varese, Giuseppe Uva, morto la mattina del 14 giugno del 2008 (dieci anni fa!) in un ospedale; dopo aver trascorso la notte nella caserma dei carabinieri. Per quella morte, accusati di omicidio preterintenzionale, sono stati processati due carabinieri e sei poliziotti; oltre all’omicidio, un’altra imputazione: sequestro di persona. Assolti in primo grado, assolti in appello: “il fatto non sussiste”. Cosa non sussiste? Giuseppe Uva è morto, questo è incontrovertibile. Giuseppe Uva è morto in ospedale, e prima si trovava in una caserma dei carabinieri di Varese, altro fatto incontrovertibile. E dunque?
Come s’usa dire: le sentenze si commentano solo dopo averne lette le motivazioni. Affermazione, almeno nel caso in questione, di ipocrita sapore. C’è ben poco da aspettare, sono i fatti nella loro successione che parlano. Conviene dunque riavvolgere il nastro della memoria.
Giuseppe viene fermato dieci anni fa da due carabinieri; sta spostando delle transenne. Viene condotto in caserma; da lì trasportato con Trattamento Sanitario Obbligatorio all’ospedale di Circolo di Varese, dove muore la mattina successiva per arresto cardiaco.
Il sostituto procuratore generale Massimo Gaballo, chiede di condannare a 13 anni i due carabinieri e a 10 anni e mezzo i sei agenti, per omicidio preterintenzionale e sequestro di persona; la morte di Giuseppe è la conseguenza, insieme ad altre cause, tra cui una sua pregressa patologia cardiaca, delle “condotte illecite” degli imputati. In particolare i due carabinieri avrebbero deciso di “dare una lezione” a Giuseppe, “colpevole” di essersi vantato di una presunta relazione sentimentale con la moglie di uno dei due.
Tutto falso, replicano i difensori degli imputati: quella sera non si è consumata “nessuna macelleria e nessuna azione di violenza”. “Accuse gonfiate” per effetto “di un aspetto mediatico e televisivo che ha spettacolarizzato la vicenda”. Tesi che ha convinto i giudici.
Ascoltiamo ora Lucia, la sorella di Giuseppe. Vede per l’ultima volta il fratello ormai privo di vita sul tavolo dell’obitorio. Quindici, interminabili minuti. Non crede a quello che vede. Quel corpo non è più suo fratello: è qualcosa di irriconoscibile, spaventosamente irriconoscibile. Una grossa tumefazione viola ricopre parte del viso: naso, nuca; al tatto, un bozzo gonfio. Sulla mano un enorme livido, e il fianco è attraversato da lunghe strisce viola. Nell’inguine, poi, un pannolone bianco da adulto incontinente, gli cinge i fianchi: sollevato il pannolone, si vedono i testicoli tumefatti e una traccia di sangue che fuoriesce dall’ano. Fatti. Fatti che sussistono.
Poi c’è il racconto delle ultime ore di Giuseppe. E’ un suo amico, Alberto Biggigero, che quella notte di dieci anni fa era con lui.
Racconta che la TV trasmette di Europei di calcio. Alberto e Giuseppe guardano la partita, gioca l’Italia. Poi vanno al solito bar, bevono; incontrano altri amici con loro trascorrono qualche ora. Sono allegri, hanno bevuto. Tornano verso casa a piedi; ecco che si accorgono di alcune transenne accatastate all’angolo di una strada.
Hanno bevuto, e capita che si facciano cose che non si debbano fare. I due spostano le transenne in mezzo alla strada, bloccano il traffico. Una goliardata da “Amici miei”. Ma Alberto e Giuseppe non sono Mascetti, Melandri, Necchi, Perozzi, o Sassaroli. E Varese non è la Firenze di Pietro Germi, Mario Monicelli o Nanni Loy. Arriva una pattuglia dei carabinieri.
Ora conviene lasciare che “parli” la denuncia depositata da Alberto il giorno dopo la morte di Uva. Uno dei due carabinieri ha lo “sguardo stravolto e terrificante”. Insegue Giuseppe, urla: “Uva, proprio te cercavo questa notte, questa non te la faccio passare liscia, te la faccio pagare”. Uva scappa, i carabinieri lo inseguono, Alberto insegue i carabinieri. Non è un film, non c’è da ridere.
Quando Alberto raggiunge i carabinieri li vede che hanno scaraventato Giuseppe a terra. Alberto prova a mettersi in mezzo, non c’è nulla da fare: a forza di calci pugni e spintoni, sono fatti salire su due diverse automobili: Giuseppe su quella dei carabinieri; Alberto sulla volante della polizia arrivata nel frattempo. Arrivati in caserma Giuseppe e Alberto sono separati: Giuseppe in una stanza, Alberto in sala d’aspetto. Da lì Alberto sente le urla prolungate dell’amico, le disperate richieste d’aiuto: da quella stanza, entrano e escono, i due carabinieri e i sei poliziotti. Alberto ha ancora con sé il cellulare, chiama il 118, chiede l’intervento di un’ambulanza.
La conversazione, trascritta, è agli atti dell’indagine:
118: “Qui 118”.
Alberto: “Sì buonasera sono Biggiogero posso avere un’autolettiga qui alla caserma di via Saffi dei carabinieri?”.
118: “Sì, cosa succede?”.
Alberto: “Eh, praticamente stanno massacrando un ragazzo”.
118: “Ma in caserma?”.
Alberto: “Eh sì”.
118: “Ho capito. Va bene adesso la mando eh”.
Alberto: “Grazie”.
118: “Salve salve”.
Alberto: “Salve”.
L’uomo che risponde al centralino del 118, prima di fare intervenire l’ambulanza chiama la caserma:
Carabinieri: “Carabinieri”.
118: “Sì salve, 118”.
Carabinieri: “Sì?”.
118: “Mi hanno richiesto un’ambulanza. Non so mi ha chiamato un signore dicendo di mandare un’ambulanza lì da voi, me lo conferma?”.
Carabinieri: “No, ma chi ha chiamato scusi?”.
118: “Un signore. Mi ha detto che lì stanno massacrando un ragazzo e che voleva un’ambulanza”.
Carabinieri: “Un attimo che chiedo”.
(trascorre qualche minuto)
Carabinieri: “No guardi son due ubriachi che abbiamo qui in caserma, adesso gli tolgono il cellulare. Se abbiamo bisogno ti chiamiamo noi”.
118: “Sì sì non ti preoccupare, ci mancherebbe, ho chiesto. Ciao ciao”.
Dopo questo surreale dialogo telefonico, il carabiniere sequestra il cellulare di Alberto, che fa comunque in tempo a chiamare il padre.
L’ambulanza non arriva, ma dopo circa venti minuti compare in caserma un dottore della guardia medica che propone per Giuseppe un Trattamento sanitario obbligatorio. La motivazione del provvedimento coatto è autolesionismo: Giuseppe si starebbe facendo male da solo sbattendo corpo e testa contro le sedie, la scrivania, gli stivali degli uomini presenti nella stanza. In una deposizione dei carabinieri compare questo passaggio: “Il collega frapponeva il suo stivale tra il pavimento e la testa di Uva, per evitare che questi si facesse più male urtando contro la superficie dura del pavimento”.
È l’alba del 14 giugno, Giuseppe è ricoverato nel reparto psichiatrico dell’ospedale. Muore verso le 11 di mattina. Il giorno dopo Alberto deposita un esposto per denunciare i fatti di quella notte. Oltre al suo racconto, l’agente del posto di polizia dell’ospedale sequestra gli indumenti di Uva, tra cui i jeans, macchiati di sangue su tutta la parte posteriore. Il fascicolo finisce in mano del pubblico ministero. Passano anni segnati da infiniti rinvii, omissioni, irregolarità all’interno di un’inchiesta che produce un primo, lungo, inutile processo per colpa medica. Secondo la prima tesi accusatoria i sanitari dell’ospedale avrebbero somministrato a Giuseppe medicinali incompatibili con il suo stato etilico. Da quel processo i tre imputati escono assolti con formula piena; i carabinieri e i poliziotti non sono neppure ascoltati, e così Alberto.
Ben tre giudici intimano al Pubblico Ministero di indagare sui fatti accaduti all’interno della caserma. Il PM si rifiuta, e viene raggiunto da un atto d’incolpazione firmato dal Procuratore Generale; interviene anche il Consiglio superiore della magistratura, un procedimento che si conclude con un nulla di fatto.
Il Giudice per le Indagini Preliminari dispone l’imputazione coatta per i due carabinieri e i sei poliziotti, per i reati di cui s’è detto. Il processo comincia il 20 ottobre 2014.
Alla fine della fiera, il “fatto che non sussiste” è che Giuseppe entra vivo in una caserma dei carabinieri, ne esce in ambulanza, dopo poche ore muore in un reparto ospedaliero.
Il sostituto procuratore generale ha chiesto di condannare a 13 anni i due carabinieri e a 10 anni e mezzo i sei agenti. La difesa degli imputati, come s’è detto ha obiettato che quella non c’è stata “nessuna macelleria e nessuna azione di violenza”. L’accusa “è stata gonfiata” per effetto “di un aspetto mediatico e televisivo che ha spettacolarizzato la vicenda” La corte d’Assise e d’Appello di Milano ha accettato questa tesi. Amaro lo sfogo di Angela, nipote di Giuseppe: “La legge non è uguale per tutti. Sono anni che infangate il nome di mia madre e di mio zio e non avete mai avuto rispetto della nostra famiglia”.
Questa storia potrebbe essere ambientata in un villaggio nel profondo Sud degli Stati Uniti d’America: l’Alabama, o la Georgia, o il Mississippi. E’ accaduta invece a Varese, Lombardia, Italia.