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Giornata mondiale dell’informazione, nel ricordo di chi ha sacrificato la vita per raccontare i dimenticati

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Nelle prossime 48 ore celebreremo la Giornata mondiale per la libertà dell’informazione, istituita il 3 maggio del 1993 per sottolineare l’importanza dell’indipendenza della stampa, un diritto sancito nell’articolo 19 della Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo, quale valore “essenziale alla costruzione di una società libera e democratica”.

Un diritto fondamentale, dunque, prerequisito per la protezione e la promozione di tutti gli altri diritti umani.

Ed è per questo che oggi, insieme ai tanti colleghi imprigionati, in particolare in Turchia ll pù grande carcere per gli operatori dei media, quelli perseguiti e uccisi solo per aver cercato di raccontare storture e violenze dei regimi che ancora in tante parti del mondo vessano le proprie popolazioni, come il fotoreporter Shawkan, ricorderemo anche Giulio Regeni e tutti gli attivisti o semplici cittadini vittime di violenze e torture in ogni angolo del mondo.

Ognuno di noi che scrive o racconta in autonomia storie difficili, dimenticate, che magari non fanno audience, e che ha scelto di non sottostare a imposizioni e logiche di share sa bene quanto l’esercizio della professione di giornalista, e il diritto a farlo autonomamente, non sia automatico ma necessiti di un ambiente sicuro, nel quale tutti possano parlare liberamente e apertamente, senza timore di rappresaglie. Ciò vale soprattutto per quei colleghi che operano in contesti dove queste garanzie non sono minimamente garantite. Ed oggi, celebrando tutti coloro che nonostante i rischi continuano a portare avanti con determinazione e coraggio il proprio impegno professionale, come i 10 operatori dell’informazione uccisi lunedì scorso a Kabul, trovo giusto ricordare giornalisti come Andrea Rocchelli e Tim Hetherington, colleghi di grande valore che per la loro voglia di raccontare vicende e notizie ‘scomode’ hanno sacrificato la propria vita.

A distanza di anni, dopo la rabbia, il dolore e il cordoglio, ci resta la memoria dell’esempio virtuoso di buon giornalismo che entrambi hanno sempre perseguito. Ed è inevitabile, almeno per la sottoscritta, non ricordare in queste ore Tim, un collega straordinario, un amico che in circostanze drammatiche ha perso la vita per dare voce a chi non l’aveva.

Forte, integro e con una spiccata sensibilità, non era soltanto un fotoreporter in gamba, era un giornalista solidale. Quando arrivava sul campo un nuovo collega, mai stato prima in una zona di guerra, non esitava a dargli consigli. Era una persona che si poteva ‘solo’ amare. Tim piaceva a tutti. Da subito. Appena dopo averlo incontrato era scontato provare simpatia. Si instaurava un feeling immediato. Almeno questa è stata la mia esperienza. Tim lo ricordo così.

Quando nell’aprile del 2011, a soli 41 anni, è stato colpito a morte da un proiettile shrapnel di un mortaio in Libia, nell’inferno di Misurata, ho perso un amico e un riferimento importante. L’empatia che dal primo momento era scaturita tra noi, quando lo avevo incontrato nell’ottobre 2010 a Londra, ha contraddistinto da subito il nostro legame, saldato dalla passione per i diritti umani.

“Ciò che faccio, ogni scatto, ogni fotogramma di reportage che monto, mi coinvolge a livello emotivo”, mi disse quando parlammo del suo contributo alla campagna di Human Rights watch sulla crisi in Darfur, che coinvolgeva anche me. E oggi, rileggendo quanto diceva Tim, ritrovo l’essenza del sacrificio di coloro che hanno dato o rischiano la vita ogni giorno per fare informazione e per raccontare la realtà così come si presenta, senza filtri e senza censure.

Descrivere i fatti, denunciare abusi, violazioni di diritti umani e alzare la cortina di silenzio che copre spesso notizie che non trovano spazio sui media di massa, è ciò che da’ un senso all’operato di qualsiasi giornalista. O almeno dovrebbe essere. Ma non è così per tutti. Il nostro sistema mediatico è condizionato da logiche che poco si conciliano con situazioni e realtà che non fanno audience o che, quando va bene, trovano spazio tra le brevi perché, è il pensiero distorto di tanti, nessuno le leggerebbe. È per questo che sin da giovanissima, quando muovevo i primi passi in una piccola radio privata, ho sempre avuto come ideale il giornalismo anglosassone. Non certo per snobismo, ma perché non trovavo alternative valide. Negli Stati Uniti, come nel Regno Unito, da sempre i media svolgono un ruolo estremamente importante nella tutela dei diritti umani. Garantiscono visibilità a chi denuncia le violazioni a danno delle minoranze o delle fasce deboli e fungono da cassa di risonanza per tutte le voci, anche quelle indigeste ai poteri forti, affinché possano essere ascoltate.

Quando colleghi animati da questi ideali sono consapevoli di rischiare sulla propria pelle, come Tim e James Foley, difficilmente si tirano indietro. Non ho mai incontrato James, ma ho avuto la fortuna di conoscere Tim e altri giornalisti che di fronte a situazioni di grande criticità e questioni off-limits non si sono arresi. Da loro ho imparato che bisogna avere la forza di denunciare le vessazioni e gli abusi che avvengono in qualsiasi luogo perché lasciare che essi rimangano nel silenzio e siano perpetrati impunemente è, come diceva Martin Luther King, una minaccia per la giustizia ovunque. E proprio pensando a storie e persone come Jim e Tim, alla loro intensa e incondizionata capacità di raccontare le vicende di chi non ha voce, appare ancor più stridente l’indifferenza del mondo dell’informazione italiano nei confronti di temi importanti come i diritti umani e le crisi dimenticate.

Oggi, nel giorno in cui celebreremo con Fnsi, Ordine dei giornalisti, Amnesty e molte altre associazioni la libertà dell’informazione, è giusto ricordare questi principi. Con la consapevolezza che nessun diritto sia purtroppo scontato e la continua determinazione a raccontare violazioni e storture per difendere i più deboli, gli ultimi, fino in fondo. Sempre.


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