Saranno state le fucilazioni in diretta di centinaia di dimostranti disarmati, saranno stati i due giornalisti palestinesi uccisi e i 110 feriti insieme ad altri 6 o 7 mila dimostranti inermi,compresi 200 paramedici che prestavano soccorso, sarà stato l’assurdo danneggiamento di una quindicina di ambulanze, resta comunque il fatto che il Consiglio dei diritti umani delle Nazioni Unite (UNHRC), alcuni giorni fa ha autorizzato a larga maggioranza una commissione d’inchiesta per verificare l’effettiva violazione del diritto internazionale da parte di Israele.
La Risoluzione è stata, ovviamente, respinta da Israele e tra i 47 paesi membri del Consiglio due si sono espressi contro, l’Australia e gli USA. Per quanto riguarda gli USa nessuna sorpresa visto che con le sue dichiarazioni e con le sue azioni circa Gerusalemme il presidente degli Stati Uniti si era già posto come “goodfather” di Israele abbandonando totalmente il suo ruolo di ipotetico arbitro. Qualche palestinese dice che forse è meglio così, nel senso che sono finite le mistificazioni e la Palestina, per voce dei suoi rappresentanti istituzionali, non riconosce più agli USA il ruolo di arbitro.
La sentenza della Commissione istituita dall’UNHRC non avrà comunque alcun potere dirimente sull’operato futuro di Israele, così come mostrano le esperienze passate, ma nonostante ciò Israele ha respinto con sdegno l’idea di poter essere indagato per i crimini commessi ed ha rifiutato la Risoluzione. Inoltre il ministro Lieberman, superando se stesso oltre che Netanyahu, ha addirittura toccato il ridicolo dichiarandosi offeso e chiedendo che Israele esca dal Consiglio dei diritti umani, dimenticando che non ne fa parte e quindi non può uscirne!
Facendo un salto indietro al marzo del 2006, cioè a quando il Consiglio per i diritti umani venne costituito in sostituzione della Commissione per i diritti umani istituita nel 1946 e risultata poco efficace per garantire il rispetto dei diritti umani nel mondo, Israele ed Usa votarono contro la sua nascita. Il loro voto contrario all’istituzione di un organismo basato sui principi fondamentali della Dichiarazione universale dei Diritti Umani emanata nel 1948 – pochi mesi dopo la proclamazione della nascita dello Stato di Israele – è un dato storico che dovrebbe far riflettere e invece viene regolarmente sottaciuto. Comunque, l’aver votato contro la sua istituzione non fornisce riparo circa la supervisione delle eventuali violazioni del diritto internazionale in quanto questa riguarda tutti gli Stati facenti parte delle Nazioni Unite e quindi anche Usa e Israele. Però è bene aver presente che la sentenza derivante dalla Commissione d’inchiesta, per quanto significativa, non è vincolante in quanto non prevede sanzioni per i paesi accusati di violazioni dei diritti umani e, in concreto, ha una pura funzione informativa diretta all’opinione pubblica mondiale. Fino ad oggi, oltre al Congo, alla Somalia, alla Birmania, alla Corea del Nord ed altri paesi, anche lo stesso Israele è stato più volte, ma inutilmente, condannato per violazione dei diritti umani. La risposta a tale virtuale condanna è stata una pubblica dichiarazione, mirante a screditare il Consiglio dei diritti umani, affermando che quest’organismo ha “un’ossessione patologica contro Israele”.
L’inversione di ruolo tra vittima e oppressore è una caratteristica propria di questo Paese e, normalmente, ha come corollario il diritto alla propria difesa e sicurezza e come giustificativo valido erga omnes ed erga tempora il ricorso all’accusa di terrorismo dei suoi nemici, anche se questi hanno da molto tempo rinunciato al terrorismo, non per bontà, ma perché considerato perdente. Infatti l’unico terrorismo vincente nella regione fu proprio quello praticato prima della nascita di Israele da Haganà, Irgun, banda Stern, i cui capi, nonostante avessero eseguito e comandato azioni con centinaia di morti innocenti divennero poi apprezzati statisti israeliani e talvolta anche Nobel per la pace. Ma questo atteggiamento Israele seguita a mantenerlo trattandosi di una strategia vincente e lo si è visto anche a Ginevra dove la dura accusa pronunciata dall’Alto commissario per i diritti umani ha avuto la replica scontata della rappresentante israeliana Aviva Raz Shechter la quale – ignorando gli oltre 110 morti palestinesi e i numerosissimi feriti fucilati a freddo dai cecchini appostati ad hoc lungo il confine – ha accusato l’organismo delle Nazioni Unite di “voler sostenere Hamas e la sua strategia terroristica”.
Mentre il Consiglio dei diritti umani si esprimeva chiedendo una commissione d’inchiesta per indagare sulle uccisioni dei palestinesi lungo i confini di Gaza, anche paesi non certo inseribili nella categoria democratica si esprimevano contro Israele, sia per l’uso delle armi sia, soprattutto, per il tentativo di espropriazione di Gerusalemme al di fuori di ogni legittimità e di ogni legalità internazionale. Il presidente Erdogan da Istanbul, non certo paladino dei diritti umani nel suo Paese, condannava con durezza Usa e Israele, idem l’OCI, l’Organizzazione della Cooperazione Islamica, i cui 57 stati membri hanno espresso una durissima condanna verbale circa il tentativo di appropriazione di Gerusalemme e il massacro di Gaza. A fronte di queste dure condanne, non risulta tuttavia che la richiesta di ritirare tutti gli ambasciatori arabi da Washington abbia avuto seguito e questo fa temere ai palestinesi che, ancora una volta, non saranno adeguatamente sostenuti da tutti i loro fratelli arabi.
La diplomazia intanto sta lavorando. Forse la marcia si spegnerà gradualmente grazie al raggiungimento di alcuni compromessi tra il governo della Striscia e il Cairo con una forte impronta anche del Qatar. Intanto l’Egitto abbassa la tensione aprendo il valico di Rafah per il mese del Ramadan, ma non si parla solo di apertura del valico di Rafah, cosa che comunque lascia intatto l’assedio israeliano e quindi non soddisfa le richieste dei gazawi, si parla anche di miglioramenti delle condizioni di vita nella Striscia, quali la fornitura di acqua e di elettricità e la presa in carico da parte del Qatar degli stipendi che l’Anp ha smesso di pagare. Tutto questo sicuramente migliorerebbe a breve termine la dura vita all’interno della Striscia, ma sarebbe la vittoria di chi, fin dal primo momento e in totale negazione della verità, ha attribuito ad Hamas la paternità di questa grandiosa manifestazione popolare, distorcendone il significato e, di conseguenza, facendone fallire l’obiettivo primario, cioè l’applicazione della Risoluzione Onu 194 per il ritorno dei profughi e la fine dell’assedio. Non solo, ma isolando sempre più la Striscia dal resto della Palestina.
Ma Gaza riserva sempre sorprese e, anche se lo stereotipo più diffuso la vuole patria esclusivamente di Hamas e fa percepire Hamas come il male assoluto, alleggerendo Israele delle sue immense responsabilità, va ricordato che Gaza non è soltanto Hamas. Hamas è la forza politica che governa la Striscia ma non è l’unica forza politica della Striscia. La grande marcia del ritorno l’ha abbondantemente dimostrato, nonostante i media mainstream abbiano fatto di tutto per nasconderlo ripetendo la vulgata israeliana finalizzata a liquidare col binomio “hamas-terrorismo” questa grande e indubbiamente coraggiosa protesta. pacifica. In tal modo è stata regalata ad Hamas la paternità di questa iniziativa di popolo che ha mostrato la possibilità di fare fronte unito superando le divisioni politiche davanti al nemico comune. I vertici di Hamas, consapevoli o meno della trappola mediatica, hanno preso al balzo quel che veniva loro offerto ed hanno fatto propria la grande marcia provando a gestirla sia dall’interno, sostenendo i partecipanti, sia verso l’esterno con gli accordi diplomatici che si stanno concretizzando e che fanno supporre che ancora una volta le tante vite palestinesi stroncate o danneggiate dall’esercito di occupazione non avranno contribuito al raggiungimento dell’obiettivo per cui si sono sacrificate. Ma Gaza riserva sempre sorprese, i prossimi giorni ci diranno se e quali.