di Marco Sarno
L’esercito di Dio in terra ha gli occhi di quest’uomo che ha attraversato il dolore di un Paese. Nelle foto che lo ritraggono da giovane ha una faccia incredibilmente pulita e sulla cui testa spunta uno ciuffo poco il linea forse con l’immagine dei preti dell’epoca.
Lo sguardo è vigile, di chi si sforza di osservare tutto. Anche il gesto delle mani mani è diverso. Sembra accarezzare ciò che lo circonda eppure dietro quella pacatezza si nasconde l’audacia di chi vuole arriva al cuore delle cose toccandole. Quando parla si capisce che appartiene a quella categoria di uomini per la quale Emil Cioran ha scritto «chi non ha sofferto non è un essere: tutt’al più un individuo.
E don Antonio Riboldi è stato tutto questo e altro ancora. Quel “ qualcosa” doveva averlo visto o intuito anche papa Paolo VI che nel 1978 lo proclamò vescovo di una diocesi “ maledetta” e vacante da dodici anni, di Acerra. Posto dove per altro ha scelto di essere sepolto.
Don Riboldi non ha mai amato le cose semplici e su questa virtù ha costruito le sue battaglie. Che fossero politiche, contro le violenze, la pedofilia, il terrorismo. Con leggerezza ha attraversato la storia d’Italia lasciando ovunque le tracce del suo passaggio. D’altronde lo si sarebbe dovuto intuire subito. Lui catapultato nel nome della fede da una frazione, Triuggio, nel cuore della Brianza a due passi, per ironia della sorte, da Arcore per finire in un pezzo dell’altra Italia. Bella e vituperata.Vicina eppure così lontana dal Continente.
La storia pubblica di don Riboldi comincia in una delle notti più buie d’Italia: è quella tra il 14 e il 15 gennaio del 1968. È la notte del terremoto. La notte del Belice. Don Antonio è un sacerdote dell’ordine dei Rosminiani finito nella parrocchia di Santa Ninfa, nel trapanese. Se essere uomo di fede significa non lasciarsi intimidire allora lo ha fatto. Come quando denunciò in tv il degrado in cui continuavano a vivere le popolazioni del Belice: «Com’è essere prete lì in mezzo? Come si fa a dire ad un uomo che per anni vive nelle baracche dove ci sono i topi e piove che Dio è qui e ti ama?».
Eppure don Riboldi sembra un predestinato. A lui la Chiesa non ha risparmiato nulla. Dopo il terremoto lo aspetta Acerra. Il Bronx, il luogo in terra dove non c’è spazio per gli uomini di volontà. C’è la camorra. C’è un territorio dove neppure Dio entra. Si spara, si uccide, si rovesciano i comandamenti. È il luogo dove violenza e paura sottomettono la fede.
Le beghine che vanno a messa alla domenica sono votate al silenzio nella casa del Signore. Lì arriva in lontananza il rumore sordo dei colpi di pistola che spezzano le vite e non hanno rispetto per il futuro. Dove non si nomina il nome del boss invano. Sono gli anni che preludono alle stragi e quei luoghi assomigliano a cimiteri con le tombe aperte. In quegli anni Raffaele Cutolo è il simbolo della prevaricazione e della restaurazione. Si alza di nuovo forte la voce di don Antonio Riboldi che non chiede, non lancia anatemi ma pretende: lavoro per i giovani, aiuto agli uomini di buona volontà, alla politica e punta sul coraggio dei giovani.
E con loro compie un miracolo terreno quando nel 1980 organizza ad Ottaviano, feudo di Cutolo, la storica marcia che porta in strada migliaia di ragazzi. A chi lo metteva in guardia dai rischi rispondeva: «Meglio ammazzato che scappato dalla camorra». Ormai fa paura. Come tutti i simboli che combattono l’ingiustizia è diventato un potere forte suo malgrado. E quando dal carcere Cutolo lo chiama per confessarsi si capisce che qualcosa cambia nei rapporti di forza. La chiesa fino ad allora assente diventa contropotere.
«Camorristi, vi scomunico». Il resto è storia. La resa, vera o presunta, della camorra grazie alla sua mediazione, le trattative, occupando spazi che sarebbero appartenuti allo Stato, con gli affiliati che vogliono consegnarsi e raccontano dove nascondono gli arsenali. Saranno gli uomini a giudicare don Riboldi proprio perché uomo tra i suoi simili. E ci sarà un motivo se è stato, di volta in volta, prete terremoto, prete anti camorra.
Se n’è andato all’alba di un giorno di dicembre di un anno fa a Stresa. Aveva 94 anni. Con lui il tempo non è stato un galantuomo. Gli ha concesso di celebrare con angoscia e fermezza i cinquant’anni del terremoto del Belice. Anche in quella occasione ha fatto sentire la sua voce. Non ha perdonato,nel nome della memoria, le istituzioni, la politica, la burocrazia. Tutti coloro che non hanno mai sanato quella piaga. O pagato un debito che fosse politico o morale nei confronti di quella tragedia.
Ha vissuto nel nome di Dio e degli uomini e oggi è sepolto per sua volontà ad Acerra, in quella Terra dei fuochi che il suo amore è riuscito solo in parte a bonificare. E anche da morto fa paura.
Nel giorno del funerale la camorra ha mandato l’ennesimo messaggio intimidatorio facendo esplodere un ordigno artigianale non lontano dalla ditta di onoranze funebri. «La Chiesa è amore», amava ripetere. Anche dove si trova adesso, per chi crede, continua a vegliare. Per chi è rimasto su questa terra vale un pensiero: al giudizio finale verranno pesate solo le lacrime. Per don Antonio Riboldi sono tante.