di Raffaele Sardo
E’ il 19 marzo 1994. Sono appena passate le 7 del mattino. Don Giuseppe Diana, giovane parroco della chiesa di San Nicola di Bari a Casal di Principe, arriva prima del solito nella sua parrocchia. E’ anche il giorno del suo onomastico.
Dopo la messa delle 7.30 ha dato appuntamento in un bar a diversi amici per offrire un dolce e un caffè. Sulla porta il sagrestano lo saluta. In chiesa ci sono già alcune donne e le suore. C’è anche Augusto di Meo, il suo amico fotografo ad aspettarlo. Vuole essere tra i primi a fargli gli auguri per il suo onomastico.
Ma ad aspettare don Peppe c’è anche un’altra persona. E’ sul piazzale della chiesa, in auto. E’ un uomo con meno di quarant’anni. Ha i capelli lunghi e indossa un giubbotto nero. Appena vede il prete entrare, scende, si guarda intorno, mette la pistola nella cintura e si avvia a passo deciso verso la sagrestia.
Don Peppe, intanto, mentre comincia ad indossare i paramenti sacri, sta ancora concordando con il suo amico fotografo il da farsi per vedersi dopo la messa.
Ed ecco che entra l’uomo col giubbotto. “Chi è don Peppe?”, chiede lo sconosciuto. Don Diana si gira e risponde: “Sono io”. L’uomo tira fuori la pistola dalla cintola e spara quattro colpi, al volto e al petto. Don Peppe non ha il tempo di rendersi conto che gli stanno sparando. Cade in una pozza di sangue. Per lui non c’è niente da fare.
Muore così, a trentasei anni, il prete che aveva osato sfidare apertamente la camorra dei Casalesi. Il killer si dilegua. Ad aspettarlo ci sono dei complici con l’auto del motore acceso. Le persone in chiesa scappano via. Augusto, il fotografo l’amico di don Diana, invece, corre dai carabinieri a denunciare l’accaduto. Sarà lui a riconoscere in Giuseppe Quadrano il killer del sacerdote.
Per l’uccisione di don Giuseppe Diana, il 4 marzo 2004, la Corte di Cassazione ha condannato all’ergastolo Mario Santoro e Francesco Piacenti quali coautori dell’omicidio, mentre ha riconosciuto come autore materiale dell’omicidio il boss Giuseppe Quadrano condannandolo a 14 anni, perché collaboratore di giustizia. Decisiva la testimonianza di Augusto Di Meo.
Quanto ai mandanti, la giustizia ha accertato che la morte di don Diana venne ordinata dalla Spagna, dal boss Nunzio De Falco detto “’o Lupo”, con l’intento di colpire il clan Schiavone-Bidognetti.
Ma prima della sentenza definitiva, ci sono stati vari tentativi di infangare la memoria di don Diana . Tentativi che iniziarono sin dalle prime ore dopo la sua morte, quando venne fatta circolare la voce che era stato ucciso per vicende di donne.
A queste voci seguirono vere e proprie campagne denigratorie con articoli apparsi sul “Corriere di Caserta” che avevano l’obiettivo di delegittimare non solo la figura di don Diana, ma soprattutto il suo forte messaggio lanciato dagli altari delle chiese della Foranìa di Casal di Principe, a Natale del 1991, con il documento “Per amore del mio popolo ”. Un messaggio dirompente contro la cultura camorristica e criminale, nato nel cuore di quella che lo stesso don Diana definiva la “dittatura armata” della camorra.
Da 19 marzo di ventiquattro anni fa, molte cose sono cambiate. La sua morte è stata come un seme caduto nella buona terra, perché ha dato molti frutti. I colpi inferti dalle forze dell’ordine e dalla magistratura ai clan, sono stati pesanti. Le condanne all’ergastolo per i capi della camorra casalese hanno messo in ginocchio l’organizzazione criminale.
Nel frattempo diversi beni sono stati confiscati ai boss e assegnati ad associazioni e cooperative sociali. Ora i criminali sono per lo più in carcere, mentre nel cimitero di Casal di Principe la tomba di don Giuseppe Diana, è meta di migliaia di visitatori.
E’ la rivincita dei familiari e degli amici di don Diana che, sin dal giorno dopo la sua uccisione, ne hanno difeso la memoria tra mille insidie. Il giorno dei funerali di don Diana, il vescovo di Acerra, Don Antonio Riboldi, pronunciò parole profetiche: “Il 19 marzo 1994 è morto un prete, ma è nato un popolo”.