Aveva ottantaquattro anni don Andrea Gallo quando, cinque anni fa, ci disse addio. Don Gallo, con i suoi occhi buoni, il suo spirito resistenziale e il suo meraviglioso anticonformismo. Don Gallo e la sua comunità di San Benedetto al Porto, a Genova, la quale si occupava di chiunque avesse bisogno di una mano tesa e di qualcuno che lo accogliesse senza pregiudizi. Don Gallo e la bellezza dei suoi sguardi, così intensi e umani, così veri, vivi, sinceri.
Era un prete progressista e fiero di esserlo, nella città di De André e dei grandi cantautori, e non c’è dubbio che lo accomunasse a Faber, oltre ad una grande amicizia, la passione per i derelitti, per quei luoghi in cui nessuno, a parte i missionari e i poeti, avrebbe il coraggio di avventurarsi, per quelle anime senza salvezza, senza speranza e senza amore cui, con la sua disarmante semplicità, riusciva a infondere il coraggio di ricominciare.
Don Gallo, un sacerdote da marciapiede, uno che se le andava a cercare sempre e comunque, l’incarnazione del Vangelo e dell’autentico messaggio di Cristo. Uno cui Francesco sarebbe piaciuto da morire e la cosa sarebbe stata reciproca, tanti sono i punti in comune fra queste due magnifiche interpretazioni della fede.
Don Gallo che nel 2009 sfidò tutto e tutti recandosi al gay pride, lui che voleva abbattere barriere e convenzioni, lui che non sopportava il sopruso e l’ingiustizia chiunque fosse a compjerla, lui che era portato naturalmente a schierarsi dalla parte degli sconfitti.
Me lo ricordo al fianco dei no global, durissimo nei giorni del G8, contrario ad una globalizzazione disumana che aveva portato alla progressiva scomparsa del concetto stesso di umanità e mai domo nella denuncia e nella battaglia contro la follia di una modernità di cui ripudiava con incredibile fermezza le assurdità e le distorsioni.
Cinque anni senza il Don, cinque anni in cui avremmo avuto un gran bisogno della sua voce, cinque anni in cui la politica è degradata a livelli insopportabili e la Chiesa ha avuto, invece, la forza di rilanciarsi, grazie all’azione pastorale condotta da un pontefice che anche noi laici non abbiamo remore a considerare un dono di Dio.
Cinque anni in cui ci è mancata la sua schiettezza che, per fortuna, continua a vivere nella testimonianza e nell’operato di altri splendidi “pretacci” come don Ciotti e padre Alex Zanotelli, figure che ho avuto l’onore di conoscere e delle quali ho percepito tutta la potenza interiore, come se bastasse loro un sorriso per indurci a osservare il mondo con occhi diversi e migliori.
Don Gallo, dolce e sempre pronto a scagliarsi contro i soprusi dei potenti, fin da quando era ragazzo e aveva scelto di unirsi ai partigiani in una città che ne aveva forgiato il temperamento e la propensione alla lotta.
Lo ricordiamo con affetto, lo stesso che riusciva a donare agli altri, il sentimento che ha accompagnato la sua vita e scandito la sua predicazione.
Don Gallo che non c’è più ma è ancora qui con noi, con la sua sciarpa rossa, il suo cappello e le sue parole misurate e penetranti, limpide e sferzanti, in grado di rimanere e resistere anche a questo tempo di orrore.
P.S. Quest’articolo è dedicato alla comunità di Nomadelfia e alla sua Costituzione, redatta esattamente settant’anni grazie all’impegno esemplare di don Zeno Saltini, il quale seppe portare nell’inferno di Fossoli un messaggio di pace e di speranza. Una volta Enzo Biagi raccontò che un giorno don Zeno gli aveva comunicato che l’indomani non avrebbe saputo come dare la colazione ai suoi bambini e così lui telefonò a Rizzoli e gli riferì la cosa. E Rizzoli rispose: “Vuole un milione subito o due alla fine del mese?”. Angelo Rizzoli, che aveva costruito un impero editoriale ma non si era mai dimenticato di essere stato un “martinitt” nella Milano di inizio Novecento. Altri tempi, altri uomini.
Iscriviti alla Newsletter di Articolo21