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Dalle minacce di morte ai tentativi di delegittimazione. L’amarezza e la rabbia di Paolo Borrometi è anche la nostra

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Alla fine Paolo Borrometi ha tirato fuori l’amarezza e la rabbia per quello che è stato messo in circolazione sulla rete a proposito del verdetto del Tribunale del Riesame sulle misure cautelari applicate alle persone che avevano ipotizzato un attentato omicidiario in suo danno. Forse è stata colpa dell’ermeneutica applicata agli atti giudiziari. Succede tante volte. Però proprio al fine di evitare interpretazioni fuorvianti qualche tassello va necessariamente rimesso a posto. Cominciando proprio dalla reazione di Paolo Borrometi il quale, all’esito dell’ordinanza del Riesame, aveva detto: “…non posso più rimanere in silenzio. L’ennesimo comunicato stampa di avvocati di pregiudicati, tenta di stravolgere la realtà. Il Tribunale de Riesame di Catania ha, purtroppo, confermato il tentativo del gravissimo attentato con un’autobomba nei miei confronti e nei confronti della mia scorta. Addirittura, cito testualmente, si dice che ‘sono accertati i contatti tra Giuliano ed il clan Cappello’ per la realizzazione dell’attentato. Forse per qualcuno il vero problema è che io non sia ancora morto…”

Ed ecco un passaggio del commento, reso pubblico da un sito on line, rilasciato da uno dei difensori  in quel procedimento, ossia l’avvocato Giuseppe Gurrieri: “Al di la delle polemiche, da cittadino pachinese provo un forte sollievo e molta soddisfazione nel potere affermare che nessun mio conterraneo ha mai programmato, organizzato né mai nemmeno desiderato l’uccisione del giornalista Paolo Borrometi e ciò posso dirlo per avere attentamente letto gli atti e con il conforto del Tribunale del Riesame che ha del tutto disatteso il contenuto della prima conversazione – quella in cui il Giuliano pronunciò la frase ‘fallo ammazzare’ – decidendo di non citarla nemmeno tra le conversazioni utili sul fronte accusatorio, riportandola così implicitamente al suo contenuto reale e cioè nel senso di dire che faccia quello che vuole ‘a te che c… ti interessa’. Per la seconda conversazione poi, il Tribunale del Riesame ha ritenuto che si trattasse di qualcosa che non coinvolgeva in prima persona gli indagati ma di un riferimento ‘alle parole di una terza persona che aveva programmato di far venire dei malavitosi […] per eliminare qualcuno considerato scomodo […]’ escludendo così ogni diretto riferimento al giornalista Borrometi.

E questo è, invece, uno dei passaggi dell’ordinanza del Tribunale del Riesame: “….la conversazione progr. 345 del 20.02.2018, nella quale Vizzini Giuseppe, la moglie e il figlio Simone parlano del giornalista Paolo Borrometi e Vizzini fa chiarissimo riferimento alle parole di una terza persona, che aveva programmato di far venire dei malavitosi da Catania, con macchine rubate, ma base logistica nelle campagne di Pachino, per eliminare qualcuno considerato scomodo, come avveniva negli anni 90, epoca che viene quasi richiamata con rimpianto”.

A molti, se non a tutti, è assai chiaro il legame tra il personaggio “scomodo” e il giornalista d’inchiesta Paolo Borrometi. Ma anche volendo sorvolare su questo dettaglio è possibile considerare normale il fatto che al telefono qualcuno programma il blitz di malavitosi di Catania per uccidere qualcuno scomodo come avveniva ai bei tempi degli Anni 90?! Il solo fatto che si sia  scatenato in ambito locale, nell’area di cui Borrometi scrive con coraggio da anni, un dibattito in punta di interpretazione giuridica su chi fosse il vero destinatario dell’attentato mortale già fa riflettere, posto che il Riesame parla di esplicito riferimento allo “scomodo” Borrometi. Sorprende vieppiù, e questo lo ha sottolineato lo stesso Paolo Borrometi, che su taluni media circolino lezioni di giurisprudenza da boss in carcere: “…Sono stato in silenzio quando un giornale online siracusano (il cui direttore è uscito da poco dagli arresti domiciliari) mi attaccava, pubblicando scritti di un capomafia, Alessio Attanasio, al carcere duro ed in isolamento”, ha scritto qualche giorno fa.

La “lezione di diritto”  è riferita ad un lungo intervento di Alessio Attanasio, pervenuto dalla casa circondariale di Spoleto, dove l’uomo sta  espiando in regime di 41 bis le condanne già comminategli.

Attanasio ha scritto un saggio di giurisprudenza sulla diffamazione a mezzo stampa e , come riportato dal sito siciliano, i “destinatari sono il giornalista Paolo Borrometi e il Pubblico Ministero Marco Rota, sostituto procuratore alla Procura della Repubblica di Ragusa. Il motivo che ha spinto il boss Alessio Attanasio, già laureato in Scienze della Comunicazione e laureando in Giurisprudenza, è da ricercarsi nella scelta operata dal Pubblico Ministero Rota di chiedere al Gip del Tribunale di Ragusa l’archiviazione della querela per diffamazione a mezzo stampa presentata dal detenuto siracusano contro il giornalista d’inchiesta Paolo Borrometi, che, come tutti oramai sanno, vive sotto scorta in quanto minacciato di morte dalla Stidda di Vittoria. Attanasio ha presentato opposizione e chiede al Gip del Tribunale di Ragusa di chiedere l’incriminazione coatta del giornalista e in ogni caso di far proseguire le indagini”. Questo è il clima cui si riferisce Paolo Borrometi, una dimensione in cui un condannato in regime di carcere duro redige un “saggio” nel quale declara come proseguire nel procedimento di diffamazione  a carico di un giornalista che è minacciato (di morte) per ciò che scrive. E tutto questo dovrebbe essere “normale”? Per chi?


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