Accade spesso che giornalisti scrivano dei libri. A volte sono libri-interviste a questo o quel personaggio, prolungamenti della quotidiana professione; qualche volta sono “racconti” di cronaca politica, vere e proprio lunghe e interessanti inchieste con il respiro del saggio; il Giorgio Bocca della maturità per intenderci; oppure instant-book destinati a “vivere” qualche mese, a volte “medaglioni” commissionati da chi viene “raccontato”, qualche volta servizievoli baedeker per articoli di pronto intervento, destinati nelle parti meno frequentate delle biblioteche. Meno frequenti i casi di giornalisti che si dedicano a racconti di fantasia. Ce ne sono, beninteso: e anche di valore, ad aver la cura e la voglia di trovarli; sono libri che perfino danno soddisfazione al lettore: storie ben congegnate, ben scritte, scorrevoli, buon ritmate.
Il “C’era 49 volte un paese” di Filippo Golia, inviato di Esteri per il TG2 (Robin edizioni, pagg.107, dieci euro), non è saggistica: non è una raccolta di articoli, o rielaborazione di esperienze professionali vissute o da altri apprese; non è romanzo o racconto, anche se “racconta”, pur se si indovina un sottofondo biografico. Golia le chiama “favole”, 49 per l’appunto. Perché 49? Arrogante, Golia si è voluto dare arie da Hemingway coi suoi “The Fifth Column and the First Forty-Nie Stories”? Ma no, Golia non è proprio il tipo. Nell’ipotetica personale cabala di Golia che significato assume il “49”? Lo psicanalista francese René Allendy (informazioni assunte smanettando un po’ il computer, non ci metto la mano sul fuoco) “questo numero mostra lo sforzo della solidarietà, 9, nelle mutazioni cosmiche, 40; e vai a capire che cosa significa. Come quadrato del 7 potrebbe rappresentare anche lo sviluppo di stadi evolutivi e i loro gradi. Il filosofo Jakob Boehme vi vede nientemeno che “il Paradiso”. La più domestica “smorfia napoletana” associa quel numero alla carne, intesa come alimento. Che scrivendo quello che ha scritto Golia abbia pensato alla bistecca, metti pure una Chianina, o ai significati adombrati da Allendy o Boehme, direi sia improbabile, conduce fuori strada; neppure una questione di grafica, se così si può dire: paese, nella copertina, è scritto, ripetuto, 49 volte, ma per farlo si lascia un “buco” nella piramide. 50 la scala sarebbe stata perfetta. E’ però proprio “l’imperfezione” che si è voluta? Lasciamo perdere. Magari tutto è più semplice: 49 perché non c’era il 50. Oppure, il perfido, volutamente si è fermato a 49 perché il lettore si lambiccasse il cervello.
Quelli di Golia sono testi brevi, tre-quattro cartelle; ma a volte poche righe, quasi haiku, toni semplici, senza fronzoli e particolari ricercatezze lessicali, proprio come nelle favole, raffinatissime nella loro semplicità. Il linguaggio, la “forma” consiste in poche, scelte pennellate; possono essere indolori colpi di fioretto: “piccoli” tagli, inferti con “leggerezza”: sembra una carezza, e ti trovi inciso e reciso nel profondo. Per fare un esempio: nel paese che Golia racconta può capitare che chiunque, nel fare qualcosa “violi qualche regola o controregola. Tutti si sentivano costantemente esposti a una punizione (che però raramente, nella confusione generale, arrivava). E per difendersene chiedevano ancora altre regole“.
Questo piccolo almanacco di favole fa pensare al primo libretto di Leonardo Sciascia, quelle “Favole della dittatura” pubblicate nel 1950 a cura di Mario Dell’Arco. Sono, quelli di Sciascia 27 testi brevi in prosa, composizioni rarefatte, ridotte all’osso: quinta si risolve in due frasi appena: “Il cane abbaiava alla luna. Ma l’usignuolo per tutta la notte tacque di paura”.
E’ la scuola del guatemalteco (ma nato i Honduras) Augusto Monterroso, con il suo celebre “Cuando despertò, el dinosaurio todavia estaba allì”: e sono solo sette parole: eppure a saperle leggere trasmettono un “messaggio” di grande portata. Non raggiunge, Golia, questi livelli di “essenzialità”, ma ci si avvicina parecchio. E se Sciascia è a metà tra l’ironico e il pessimista/realista; se Monterroso indulge nell’immaginifico melanconico; Golia raggiuge punte di tranquilla beffa graffiante: “C’era una volta un paese dove la magnifica carriera di un detenuto veniva sovente interrotta dall’improvvisa assegnazione di un incarico politico o istituzionale”. E che dire dell’arte “tollerata finché si inchinava al potere o aveva accettato di rappresentarlo. Ma l’arte nuda, l’arte ridotta alla sua essenza di gioco, chi credeva di essere?”. E che dire del paese in cui “tutti covavano una furia, per come andavano le cose. In cui le cose andavano come andavano anche a causa di quella furia che covava e non trovava sfogo. In cui l’errore più comune era di prendere sul serio quella furia, come se stesse per sfogarsi”?
Azzardato definire il “C’era 49 volte un paese…”, una raccolta di apologhi? Mi faccio la domanda, e mi rispondo che no, non azzardo.
Italo Calvino ne scrisse una ventina, intorno al 1943-44, “raccontini che corrispondono a una serie di esperienze politiche o sociali di un giovane durante l’agonia del fascismo”. Lo stesso Calvino, spiega che “l’apologo nasce in tempi d’oppressione. Quando l’uomo non può più dar chiara forma al suo pensiero, lo esprime per mezzo di favole”.
Ecco, potrebbe essere interessante indagare su questa connessione: apologo-tempo di oppressione. Che tempo viviamo, mentre siamo impegnati nella lettura degli apologhi di Goria? Non è certo fascismo; ma quanto all’essere un regime democratico, se ne può discutere a lungo…
Torno alle “Favole” di Sciascia. La prima, “Superior stabat lupus: e l’agnello lo vide nello specchio torbo dell’acqua. Lasciò di bere, e stette a fissare tremante quella terribile immagine specchiata. «Questa volta non ho tempo da perdere», disse il lupo. «Ed ho contro di te un argomento ben più valido dell’antico: so quel che pensi di me, e non provarti a negarlo». E d’un balzo gli fu sopra a lacerarlo”. In questa favola, la numero uno, il senso è chiaro, la morale è inalterabile, l’acqua torbida resterà torbida.
Non è diversa, c’è lo stesso spirito acre, nella secca affermazione del “paese” numero 19: “…Nessuno sembrava sapere più nulla delle stagioni o della dolcezza. Nessuno restava mai in silenzio”.
Golia rivela e riconosce/rivendica, nella nota finale, i debiti contratti: i fratelli Grimm, Hans Christian Aderse, Nicanor Parra, Mario Tobino, Alberto Arbasino, Ennio Flaiano, Carlo Emilio Gadda. Ottime letture, veri e propri salva-vita, contravveleni, e in particolare nei tempi che tocca di vivere. Ma s’indovina che non sono i soli autori frequentati e sedimentati. Golia ha forse un difetto grave per la professione che esercita: legge, ascolta, assimila, rielabora personalizzando. Di sicuro ha contratto molti altri “debiti”; e pervicace continua. Con “C’era 49 volte un paese…”, li salda, questi debiti, con i dovuti interessi.
L’Italia può legittimamente dire che il paese di Golia “c’est moi”. Un paese insieme “solare” e misterioso, allegro e cupo, genio e sregolatezza: nel suo vessillo dovrebbe/potrebbe cucire il ritratto del Kean ben descritto da Alexandre Dumas padre… Ma al tempo stesso il Paese di Golia si svincola dall’Italia 49 volte declinata, e persino da quel favolistico “c’era…”; tutto si trasforma in un presente, si trasfigura in un futuro incombente, si fa più universale e si dilata…: “E adesso che tutto il mondo era diventato quel paese, come in un caleidoscopio un colore si ripete centinaia di volte, colpiva al petto una fitta incontenibile di nostalgia per ciò che quel paese era stato e non poteva essere più”. C’era. C’è. Ci sarà anche.