Venticinque anni dalla vergogna del Raphaël, l’albergo romano dietro piazza Navona che Bettino Craxi aveva eletto a sua dimora romana, luogo di incontro dello stato maggiore socialista e, di conseguenza, epicentro della vita politica nazionale. Venticinque anni dagli insulti e dal lancio di monetine e oggetti vari che Craxi subì la sera del 30 aprile 1993, dopo che la Camera aveva respinto quattro delle sei richieste di autorizzazione a procedere a suo carico.
Sia chiaro: non ho mai stimato Bettino Craxi e non ho certo un’opinione positiva del suo operato, non solo sul piano etico ma anche dal punto di vista strettamente politico, a cominciare dal Decreto di San Valentino che sancì, nell’84, l’abolizione della scala mobile. Senza dimenticare l’esplosione del debito pubblico che, proprio in quegli anni, ebbe un’impennata, fino a condurre il Paese nel baratro nel fatidico ’92, quando il socialista Amato fu costretto a varare una Finanziaria da novantaduemila miliardi per scongiurare la bancarotta e il disastro di una lira prossima a divenire carta straccia.
Non dimentico la lezione di Andreatta, la sua battaglia campale contro la classe dirigente socialista, le sue continue denunce e il prezzo altissimo che fu costretto a pagare a causa della propria dignità.
Non dimentico nemmeno il decreto a favore delle televisioni di Berlusconi, da cui derivano molti dei disastri contemporanei, per via della legitimmazione di ciò che ben tre pretori avevano considerato inaccettabile ed illegale, in quanto il fatto che il Cavaliere trasmettesse contemporaneamente su tutto il territorio nazionale tramite un sistema di videocassette ed emittenti locali violava, di fatto, la norma secondo cui solo la tivù pubblica poteva trasmettere simultaneamente in tutta Italia.
E aggiungo che il craxismo, con i suoi eccessi, i suoi nani e le sue ballerine, la sua “Milano da bere” e il suo edonismo atto a riprendere quello reaganiano, è stato l’emblema degli anni Ottanta, ossia del decennio che ha distrutto quasi tutto ciò che il nostro Paese era stato in grado di costruire nei decenni precedenti.
Fatto sta che quella sera al Raphaël si consumò una vergogna senza eguali (lascerei perdere il paragone con piazzale Loreto: mi sembra forzato e inesatto), in un tripudio di ipocrisia, falsità e azioni sconsiderate, con troppa gente che cadde improvvisamente dal però dopo aver assistito in silenzio per decenni alle pratiche di una certa politica ed essere stata sostanzialmente consenziente alle medesime fino a quando ne ha tratto un sia pur minimo vantaggio, salvo poi scatenarsi come una belva per provare a saltare sul carro dei nuovi vincitori. E quando, nel ’94, ha vinto una parte degli epigoni e dei sostenitori di Craxi, gli stessi “indignati” non hanno fatto altro che tornare a battere loro le mani, dimenticandosi della propria foga e, anzi, scagliandosi contro quei galantuomini del pool di Mani Pulite che avevano acclamato strumentalmente per anni.
La verità è che al Raphaël, in quell’orgia di violenza, cattiveria, furia ed indecenza, verbale e fisica, ci siamo giocati la politica, la democrazia, la convivenza civile e la speranza di costruire un avvenire migliore, basato su una corretta gestione della cosa pubblica e non sui pruriti dell’uomo solo al comando di turno o sul tintinnare delle manette che, per quanto talvolta necessario, non può mai essere confuso con l’attività politica o, peggio ancora, invocato per far fuori gli avversari, in spregio alla divisione dei poteri tracciata da Montesquieu.
Sostenne in quei giorni proprio Craxi: “Una rivoluzione: così sono stati definiti e così molti concepiscono gli avvenimenti di casa nostra. Una rivoluzione; può darsi. Però allora è bene essere consapevoli che una rivoluzione è di per sé sempre una grande incognita ed una grande avventura. Ma soprattutto una rivoluzione senza un ceto organico di rivoluzionari è destinata solo a distruggere ed a preparare un fallimento certo. C’è stata una violenza nell’uso del potere giudiziario, nell’uso dei sempre più potenti mezzi di comunicazione. C’è stato un eccesso di violenza nella polemica politica, nella critica, nel linguaggio e nei comportamenti. E la violenza non può far altro che generare violenza nei giudizi, nei sentimenti, nelle passioni, negli animi”.
Una profezia che si è tristemente avverata. E a me torna in mente il racconto di un bravo giornalista socialista, di cui preferisco non rivelare il nome, il quale all’epoca spiegò di essere stato orgogliosamente in minoranza negli anni in cui Craxi era il padrone d’Italia e che, proprio per questo, non sarebbe andato a tirargli le monetine nel momento della massima difficoltà, quando molti, al contrario, fingevano di non conoscere colui cui, in alcuni casi, dovevano tutto. Una sensibilità e una nobiltà d’animo che, purtroppo, non esistono più.
P.S. Dedico quest’articolo alla memoria di Antonio Maccanino, di cui ricorre il quinto anniversario della scomparsa. Si è battuto per tutta la vita contro ogni forma di ipocrisia e se ne è andato nel momento in cui la politica ha smesso praticamente di esistere. Per quanto ne avverta la mancanza, sono felice che si sia risparmiato questo scempio.