Scorro con commozione le foto di Shah Marai il fotoreporter afghano ucciso insieme ad altri 9 giornalisti nel sanguinoso duplice attacco kamikaze di lunedì costato la vita ad almeno 26 persone,c’erano anche dei bambini. Il 30 aprile sarà ricordato come la carneficina dei giornalisti afghani. Le immagini di Marai che era il capo della France Press di Kabul testimoniano 20 anni di lavoro appassionato e sempre in prima fila sulla vita e sulle tragedie di un paese che,nonostante gli oltre 100 miliardi di aiuti ricevuti in 17 anni e la presenza costante delle truppe internazionali, continua ad essere uno tra i più pericolosi e devastati del mondo. Un paese che solo per il 40% è controllato dal governo centrale e dove anche l’Isis, alla ricerca di un nuovo rifugio sicuro, ha fatto la sua comparsa. Una palude nella quale abbiamo avuto la fortuna di non essere nati.
Dobbiamo essere grati a quell’imprevedibile lotteria che assegna a ognuno di noi un destino, e che ci ha risparmiato l’esperienza Afghanistan, un luogo che è una scommessa quotidiana con la vita, soprattutto se si nasce donna. La primavera in tutti i paesi del mondo è un luogo dove si guada ai fiori che sbocciano e alle foglie che tornano sui rami, tra le impervie montagne dell’Hindu Kush invece si guarda con angoscia alla neve che si scioglie e ai combattimenti che riprenderanno più intensi di prima. Negli ultimi anni in realtà la carneficina non si è mai fermata nemmeno nei mesi invernali. I nemici del governo filo-occidentale del presidente Ashraf Ghani hanno solo cambiato strategia ed hanno aumentato gli attacchi kamikaze,una volta sconosciuti nel paese. Solo una settimana fa 57 persone sono state uccise in un altro attentato suicida mentre erano in fila per registrarsi in un ufficio elettorale. L’isis ha rivendicato la strage. A settembre si voterà per il rinnovo del Parlamento e l’insicurezza è destinata ad aumentare. Il presidente Trump ,che voleva ritirare i soldati americani, ha dovuto cambiare idea e ne ha lasciati 14 mila. Poca cosa rispetto ai 100 mila del 2010, ma comunque in aumento se confrontati con i 9800 del 2015 con Obama. 2400 i militari statunitensi morti,migliaia quelli rimasti feriti e menomati nel tentativo di stabilizzare l’Afghanistan costato la vita anche a 31 mila civili. Anche noi italiani abbiamo avuto le nostre 53 vittime e continuiamo ad essere presenti con 900 militari nella provincia di Herat, un’area grande quanto il nord Italia che corre lungo lo strategico confine con l’Iran e abbiamo una rappresentanza al Comando Nato a Kabul.
Una guerra che non si può vincere è stato affermato e che interessa poco ormai alle opinioni pubbliche occidentali. Dopo il grande entusiasmo per la ricostruzione e il ritorno a casa di milioni di afghani, nel 2003 è cominciato il disinteresse, con l’attenzione che si è concentrata sul conflitto in Iraq e sul progetto demenziale di George W Bush di voler esportare la democrazia. L’Afghanistan con la caduta dei talebani appariva ormai un caso risolto. Non era vero e l’ho raccontato nel mio libro Il vento di Kabul dove mettevo in guardia dall’instabilità che vedevo crescere nel paese. La storia recente ci ha dimostrato che non avere finito il lavoro in Afghanistan ha portato alla totale insicurezza di questi giorni, con il sanguinoso numero di morti che cresce. Ma sono morti di serie B e le stragi sono confinate nelle città afghane. Un problema quindi ormai locale, come dimostra il poco spazio dato sui nostri giornali alle notizie dall’Afghanistan. Difficile – questo il pensiero comune- che gli eventi del lontano e sperduto paese asiatico diventino di nuovo fatti nostri, come accaduto in passato. Era l’11 settembre del 2001 l’attacco alle Torri Gemelle. Lo aveva ordinato Bin Laden leader di Al Qaida ospite dei talebani tra le montagne afghane. Allora, l’Afghanistan era un paese isolato dal mondo, le ambasciate avevano chiuso e non c’erano forze internazionali a vigilare sul territorio. Oggi la situazione è molto diversa, la guerra con i droni ha sostituito i soldati sul terreno e i 50 morti al giorno afghani in fondo non ci riguardano. Sono appunto un problema circoscritto all’Afghanistan. Sarebbe bene però tenere a mente gli errori del passato.