Quaranta anni dopo la morte di Peppino Impastato, più che la cronaca conta il bilancio. Ma cronaca e bilancio si intrecciano a volte e fanno respirare. Quando ci si ritrova, con i capelli bianchi (per chi ancora li ha) in una folla enorme di giovani, neanche diciottenni che hanno soltanto sentito parlare di Peppino, si è costretti ad ascoltare le loro voci. Nella bella, combattiva e vitale manifestazione partita da Terrasini, dove Peppino trasmetteva da “Radio Aut”, passando per quei binari maledetti dove ne hanno trovato le spoglie, fino a giungere a Cinisi, nel suo mondo, abbiamo potuto leggere qualcosa di più che una speranza. Una presenza giovanile soverchiante e non retorica. Ti fermavi a parlare con i ragazzi e le ragazze. Chiedevi le ragioni per cui una scuola, un professore, avessero deciso di coinvolgerli in una “manifestazione” e le risposte che giungevano sorprendevano per profondità e acutezza. Ti raccontavano non solo il mito dell’eroe morto per combattere la mafia, la corruzione, ma qualcosa di presente e ancora privo di rappresentanza reale.
Giovani veri che aspirano ad un mondo diverso, non solo privo di mafia e corruzione, ma di uno Stato che oggi percepiscono come marcio nelle ossa, di un sistema di sfruttamento che riguarda il proprio futuro come quello degli uomini e delle donne migranti, come quello dei propri genitori. Un fiume di energia politica, sociale e culturale, da ascoltare, con cui trovare il modo di relazionarsi partendo da un punto di vista forse elementare. Chi scrive si è fermato a parlarci con questi ragazzi e ragazze che potrebbero essere i propri figli. Ne ha percepito tanto la sofferenza quanto il bisogno di avere come sostegno sia miti come Peppino sia prospettive di partecipazione e di coinvolgimento che la nostra egoista generazione spesso non riesce a garantire. In una splendida giornata di sole siciliano era bello veder sfilare insieme spezzoni delle scuole professionali e dei tecnici industriali, affatto abbrutiti come vorrebbero alcuni nostri intellettuali da salotto, insieme a bandiere delle mille sigle della nuova sinistra, sociale, sindacale e politica.
Tutte/i potevano starci, mischiarsi, incontrarsi. Un bagno di folla che, per chi aspira a cambiare il paese dovrebbe divenire bagno di umiltà e di riflessione. Poca retorica e tanta voglia di vivere, poca ostentazione e tanta urgenza di raccontare bisogni, aspettative, rabbia e orgoglio, dignità e pluralità. Sarebbe stupendo immaginare che i tanti e ‘le tante che portavano le bandiere della sinistra che c’era e che c’è abbiano trovato voglia, tempo e intelligenza di confrontarsi con chi portava con se uno striscione della propria scuola, chi indossava le magliette del proprio liceo, chi si era inventato striscioni anche commoventi per potersi schierare dalla parte giusta. Nonostante il terrore indotto dalla “buona scuola”, tanti docenti si sono impegnati per sensibilizzare le proprie classi che sono scese in questi paesini a metà strada fra Palermo e l’aeroporto di Punta Raisi.
Da Brescia, dall’Emilia, dalla Calabria, dall’intera Sicilia, sono state in tante e tanti a scendere a Cinisi. E se parlavi loro di un astratto concetto di “legalità” capitava di sentirti dire, da ragazze/i di 16 anni che “la legalità esiste dove non ci sono ingiustizie”, un messaggio forte e significativo che sarebbe importante intercettare. Una camminata di oltre 2 chilometri, ignorata da gran parte delle più importanti figure istituzionali, prese da ben altre misere beghe interne, ma che ha portato alla luce uno spaccato di realtà su cui non bisogna spegnere i riflettori. I ragazzi sono rimasti ad ascoltare, dopo il corteo, chi parlava e raccontava di Peppino e di Felicia, chi raccontava l’importanza della verità. Si sono commossi quando sullo schermo allestito per l’incontro sono apparsi i genitori di Giulio Regeni in collegamento skype e la loro legale Alessandra Ballerini. Due vicende diverse – come ben ha voluto precisare la mamma di Giulio – ma unite dal fatto che a distanza di decenni segnano comunque il confine, tragico, fra criminalità del potere e ricerca della libertà e difesa della dignità. Non si tratta, in entrambi i casi, di un richiamo all’idea retorica di eroismo quanto alla memoria.
Memoria di un paese che è stato capace, nei suoi momenti migliori di esprimere intelligenza, ricerca, passione per una giustizia reale e contemporaneamente di realizzare accordi immondi con i carnefici che troncavano queste speranze. Eppure il 9 maggio 2018, in una magnifica giornata come quelle che la primavera siciliana sa regalare, le generazioni e le storie di chi non si rassegna agli abusi, sono riuscite ad incontrarsi. Che sia un segnale di allarme per chi immagina di avere a che fare con un paese già narcotizzato.