40 anni dopo la morte di Peppino Impastato abbiamo bisogno di un giornalismo privo di pigrizia, vigliaccheria, confusa sciatteria

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Cosimo, Mauro, Giovanni, Mario, Pippo, Mauro, Beppe, Giancarlo, Carlo, Walter, Italo, Graziella, Ilaria, Mirian, Maria Grazia, Enzo, Dafne, Jan, Peppino Impastato. Alcuni nomi che ogni volta che parliamo di informazione, di libertà di informazione, di informazione attaccata, dobbiamo tenere ben presenti. Sono stati uccisi per il profondo rispetto e legame con l’articolo 21 della Costituzione, che non è solo un diritto ma è anche un dovere, estremamente legati tra loro, indissolubile. Li dobbiamo ricordare perché è un lungo elenco che è sempre provvisorio.

Ci dicono che la mafia è sommersa, che si è disarmata, e invece ogni giorno la cronaca ci racconta di giornalisti minacciati e attaccati, ancora fino a ieri sullo scenario di quella Roma per la quale qualcuno ha urlato urrà dopo la sentenza di “Mafia Capitale”, dicendoci che Cosa nostra a Roma non c’è, ma non è vero. Le minacce continuano, ce lo raccontano le storie di Paolo Borrometi, Lirio Abbate, Giovanni Tizian, per fare alcuni nomi. La mafia non si è disarmata e se non spara sa bene seguire certe strade per delegittimare i giornalisti che scrivono, che continuano a raccontare i fatti delle nostre città. Giornalisti perfettamente convinti che la verità su tanti delitti e stragi rimasti non compiutamente puniti, girano, liberi, guardati con rispetto da certuni, per le vie delle nostre città.

Quarantanni dopo l’omicidio di Peppino Impastato, quella “notte buia dello Stato” resta ancora tale e quale. E lo resta anche perché spesso i giornalisti rimasti vivi, grazie a chi ha dato la sua vita per la verità, non hanno memoria dell’oggi. Siamo capaci come giornalisti a fare memoria del passato, ma è nel raccontare l’attualità che poi talvolta ci perdiamo. Quarantanni dopo quell’omicidio “spacciato” per attentato terroristico che Peppino Impastato voleva attuare sulla strada ferroviaria Palermo-Trapani, i mafiosi continuano ad abitare a cento passi dalle nostre case. C’è necessità di riscoprire facendo i nomi e cognomi dei mafiosi le ragioni del nostro lavoro. A Trapani il nuovo capo mafia, per come ci è stato indicato da una recente misura di custodia cautelare, si chiama Franco Orlando, un uomo d’onore riservato alla corte di Matteo Messina Denaro. Gestisce un bar nel cuore della Trapani mafiosa di un tempo, quella di Borgo, il quartiere che appartenne alla famiglia mafiosa dei Minore, e che pare essere diventata il crocevia dei nuovi affari. Orlando gestisce una ben frequentata pasticceria, in città distribuisce il più famoso dolce trapanese, il cannolo. I mafiosi della provincia, ha raccontato l’ultimo blitz antimafia, vengono dalla provincia per parlare con lui degli affari da fare. Per carità tante cose sono lecite, ed è questo il dato nuovo che riguarda Cosa nostra.

La nuova mafia è dentro gli affari leciti, ha dalla sua parte anche imprenditori che non sono “punciuti”, affiliati in modo riservato, come Orlando, condannato per tale reato e tornato libero da poco tempo, la mafia utilizza imprenditori che girano in grisaglia e con le valigette piene di denaro, utilizzando la nuova arma che è quella della corruzione. Imprenditori “puliti” che portano in questo modo la mafia, le mafie, nel circuito legale. Quarantanni dopo la morte di Peppino Impastato abbiamo bisogno di un giornalismo privo di pigrizia, vigliaccheria, confusa sciatteria, che si nasconde dietro certi simbiosi. Dobbiamo raccontare ai giovani che crescono e che si avvicinano al giornalismo che questo è un mestiere bello, che può togliere il sonno, che può non essere remunerativo, ma che nonostante tutto resta un mestiere legato, quanto altri, alle fondamenta della nostra Costituzione. Non a caso le dittature nelle loro agende al primo punto hanno sempre avuto la soppressione della libertà di informazione. Queste cose dobbiamo dircele ogni giorno, rispondendo a chi continua a tentare di uccidere non la persona ma il diritto dovere ad informare attraverso le querele temerarie e le false notizie messe in giro per “mascariare”.

Una persona, dicevano i mafiosi trapanesi appena arrestati qualche giorno addietro a Trapani, la si può uccidere una volta, ma facendola restare viva la si può uccidere ogni giorno, sporcandola, infangandola. Già la macchina del fango che la mafia ha saputo inventare e fare diventare fenomeno di certa cultura. Quarantanni dopo la morte di Impastato, rischiamo di trovarci cittadini di una Europa con la Turchia che incarcera i giornalisti, e di trovarci cittadini di un Paese, il nostro, dove non possiamo dire “pezzo di merda” ad un mafioso, perché appartenente alla “montagna di merda” quale è la mafia. Noi invece non vogliamo esseri europei con la Turchia e vogliamo vivere in una Italia che ai mafiosi permetta di dare dei “gran bei pezzi di merda”. E desideriamo vivere in un Paese dove il giornalismo che racconta non lo si guardi come qualcosa di coraggioso o di eroico, ma lo si guardi come una cosa estremamente e profondamente normale.


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