Nel giorno in cui viene annunciata la proroga, per la settima volta consecutiva, dello stato di emergenza in Turchia, il procuratore del processo agli ex giornalisti di Zaman chiede l’ergastolo per Ali Bulac, Mumtazer Turkone, Ibrahim Karayegen e Sahin Alpay, quest’ultimo recentemente scarcerato dalla Corte Costituzionale per “violazione dei suoi diritti”, e altri 27 dipendenti o collaboratori del quotidiano accusato di far parte di un’organizzazione terroristica eversiva.
Il giornale vicino all’imam Fethullah Gülen, ritenuto l’ideatore del fallito golpe del 15 luglio 2016, dopo essere stato più volte perquisito dalla polizia e posto in amministrazione controllata nel 2016 è stato definitivamente chiuso per ordine del presidente turco Recep Tayyip Erdogan.
Ai componenti della redazione di Zaman viene contestato il legame economico con Gulen. Per tutti loro, 17 in carcere, 6 in libertà vigilata e altri 8 giudicati in contumacia, tra cui il direttore Ekrem Dumanli, l’accusa è di terrorismo.
La requisitoria del procuratore che nel 2016 ne ordinò l’arresto è stata durissima e si è conclusa con la richiesta del carcere a vita per i 31 imputati.
Tenendo conto che il mese scorso erano già stati condannati all’ergastolo sei giornalisti, tra cui i fratelli Ahmet e Mehmet Altan e la veterana della stampa turca Nazli Ilicak, il verdetto appare scontato.
Stessi timori anche per i colleghi di Cumhuriyet, storico quotidiano di opposizione di cui sono alla sbarra 18 tra redattori, collaboratori e vertici editoriali. Il loro processo riprenderà il 24 aprile e tre giorni dopo, alla fine dell’ultima udienza, il 27, è prevista la sentenza.
Contestualmente alle battute finali dei primi procedimenti a carico di operatori dell’informazione ritenuti in qualche modo coinvolti nel tentativo di colpo di stato, gli arresti non si fermano come il sequestro e la chiusura di giornali e altri media ´sgraditi’ al regime. Almeno 150 giornalisti sono tuttora in carcere. E nulla fa presagire che sia finita, come testimonia l’annuncio del vicepremier Bekir Bozdag dell’estensione dello stato di emergenza in Turchia per altri tre mesi.
Entrata in vigore il 22 luglio 2016, a una settimana dal golpe fallito, la misura voluta da Erdogan ha portato all’arresto di oltre 90mila persone e al licenziamento di 150 mila tra militari, magistrati, accademici, funzionari pubblici e operatori dell’informazione.
Il governo giustifica il provvedimento affermando di non ritenere conclusa la lotta contro il terrorismo e i ´golpisti fedeli a Gülen´.
Il prolungarsi dello stato di emergenza non impedisce, però, alla Turchia di organizzare nel Paese summit con importanti capi di Stato.
In queste ore a Istanbul Erdogan ha infatti ricevuto i presidenti di Russia e Iran per un inedito vertice a tre di grande rilevanza geopolitica. Tema centrale dell’incontro, quanto meno quello ufficiale, il conflitto siriano. Nel documento finale la triade ha chiesto “con forza” l’applicazione della risoluzione 2401 del Consiglio di sicurezza dell’Onu approvata all’unanimità lo scorso 24 gennaio istituendo una tregua in Siria al fine di permettere la consegna di aiuti umanitari alla popolazione e lo sgombero dei civili dalle aree di conflitto.
Erdogan, in conferenza stampa, ha tenuto a sottolineare che il cessate il fuoco non si applica a organizzazioni terroristiche come Stato islamico, al Qaeda, ex Fronte al Nusra e altri terroristi “che vanno cacciati dalla Siria”.
Pur non citandoli era chiaro il riferimento ai curdi contro cui la Turchia ha sferrato un attacco a inizio anno nel distretto di Afrin che ha coinvolto migliaia di civili.
Nonostante la teorica sospensione delle ostilità non è sempre stato permesso ai convogli con gli aiuti di arrivare alla popolazione siriana.
Per questo, pur ribadendo l’importanza dell’atto dell’Onu, Erdogan, Putin e Rohani chiedono “con fermezza a tutte le parti del conflitto di applicare le disposizioni della risoluzione 2401 astenendosi dal violare il cessate il fuoco”.
Turchia, Russia e Iran affermano, inoltre, la loro determinazione ad “accelerare” i loro sforzi per assicurare la tranquillità e la protezione dei civili nelle zone ‘in sicurezza’ in Siria. Quanto meno a parole…
Le aree in questione, istituite durante i colloqui di Astana, ovvero Ghouta, Homs, Idlib, Deraa e Quneitra, seppure le operazioni militari siano formalmente interdette sono spesso teatro di combattimenti tra le forze fedeli al governo di Damasco, appoggiate da russi e iraniani, e le fazioni dell’opposizione siriana. E come sempre a pagare il tributo maggiore di vittime e la popolazione civile.