di Piero Melati
Dalle parti degli infedeli il cardinale di Palermo Salvatore Pappalardo ci finì d’improvviso il 27 aprile del 1983.
Andava come di consueto a celebrare messa, alla vigilia di Pasqua, nel cortile del carcere dell’Ucciardone. Il suo desiderio di confortare i detenuti si trasformò presto in un grande sconforto che a sua volta ne ricevette: il cortile era vuoto, la messa era stata disertata. Perché?
Questo figlio di un maresciallo dei carabinieri, che nell’ottobre del ’70 aveva preso sulle spalle la croce della porpora in città di frontiera, aveva accompagnato la lunga catena di omicidi importanti che martoriava la città (poliziotti, magistrati, uomini politici) con indignate omelie pronunciate alle solenni messe funebri. Ma poi, ucciso anche il prefetto di Palermo generale Carlo Alberto dalla Chiesa con la moglie Emanuela Setti Carraro, era sinceramente sbottato. La misura, evidentemente, era colma.
Aveva sbagliato citazione (non Sallustio, come disse, ma Tito Livio) ma aveva tuonato dal pulpito “Dum Romae consulitur, Saguntum expugnatur”: “Mentre a Roma si pensa sul da fare, Sagunto viene espugnata. E questa volta non è Sagunto ma Palermo, povera la nostra Palermo, povera, come difenderla…”.
Non doveva difenderla affatto. Questo gli dissero, disertando la messa nell’antico carcere borbonico, i boss dell’Ucciardone, che a quei tempi (ben prima di ogni 41 bis e carceri speciali) imperavano su tutti gli altri detenuti.
La citazione del cardinale aveva fatto il giro del mondo. E a quella la mafia, a suo modo, aveva replicato, lanciando un inequivocabile segnale. Non sempre Cosa Nostra ha avuto bisogno del fragore delle armi. Spesso è stata sufficiente una rappresentazione teatrale, come in quel cortile deserto, in quella messa disertata. Un mese dopo lo stesso cardinale rilasciò una intervista in cui dovette dire: “Sono stato frainteso”. E dovette da allora farsi più prudente. I suoi più stretti collaboratori temettero per la sua stessa vita. Non esagerando troppo, se nel 1993 il clan di Brancaccio uccise padre Puglisi. Anni dopo uno dei più leali uomini del cardinale (senza nascondere vergogna ma con grande onestà) ha raccontato che dovette correre a Bagheria, a incontrare Michelangelo Aiello, imprenditore ben introdotto ai vertici delle cosche.
Questi minimizzò l’episodio del boicottaggio dell’Ucciardone, ma in perfetto stile elusivo: non c’entrava nulla l’omelia su Dalla Chiesa, era stato solo risentimento verso il cardinale, a cui i detenuti avevano l’anno prima consegnato una lettera, nella quale chiedevano misure meno restrittive a proposito di colloqui e cambio di lenzuola, lettera a cui non era stato dato l’aspettato seguito.
La vita del cardinale non era in pericolo, assicurò. E l’emissario della Curia dovette poi precipitarsi al porto, dove il cardinale si stava imbarcando alla volta di una breve vacanza, per rassicurarlo. E Pappalardo effettivamente se ne rassicurò. Ma poi, possiamo ipotizzare, deve averci riflettuto: un segnale era arrivato lo stesso. Un ammonimento vagamente evangelico: noi ti abbiamo chiesto (più colloqui e lenzuola) ma tu non hai risposto.
Il lapsus apparentemente innocuo che Pappalardo commise quando pronunciò la frase su Sagunto (la citazione era di Tito Livio e non di Sallustio) è un inciampo freudiano che non fu solo del cardinale, ma di tutti noi siciliani. E che tipo di inciampo?
Meriteremmo voti bassi in cultura generale. Troppo spesso non riusciamo a coniugare memoria storica e attualità. Sbagliamo le citazioni e i collegamenti, oppure non ne facciamo affatto. Il cardinale Pappalardo, nel lunghi anni del suo dicastero, aveva respinto le pressioni degli ambienti della Democrazia cristiana siciliana (partito di maggioranza assoluta in Sicilia) a rientrare nei ranghi, a supportarla anche elettoralmente. Egli, invece, non solo non ostacolò la presentazione delle liste di “Città per l’uomo” (formazione cattolica dissidente) ma mai frenò il cammino di Leoluca Orlando, che proprio in quegli anni si andava distaccando dal potentati democristiani legati a Cosa Nostra.
Nel 1979 (dunque fresco fresco, rispetto al fatto che stiamo narrando) Leonardo Sciascia pubblicava il libretto “Dalle parti degli infedeli” nel quale raccontava le vicende del vescovo di Patti (Agrigento) Angelo Ficarra, esautorato dall’incarico per non avere appoggiato (anche elettoralmente) la Democrazia cristiana.
Sciascia, analizzando l’epistolario tra Ficarra e vertici vaticani, mette in luce quella catena di blandizie, ammonimenti, pressioni inquisitorie e velate minacce che vennero usate, nei primi anni Sessanta, dalla curia romana per piegare quel degno cardinale.
Anche a proposito di Pappalardo, in relazione alla “prudenza” che caratterizzò il suo comportamento dopo la messa disertata, si è detto spesso che devono essergli piovute addosso, e dall’alto, sussurri e suggerimenti. Ma non ne abbiamo tracce né testimonianza.
Rileggendo oggi “Dalle parti degli infedeli” di Sciascia possiamo solo ipotizzare qualche analogia tra i due casi. Anche allora per Ficarra, come nel caso di Pappalardo, scrive Sciascia, “tante cose stavano per cambiare: e, si capisce, per non cambiar nulla. Ma appunto perciò cambiavano”.