C’era un che di mistico nella sua grandezza, potremmo quasi dire nella sua profezia, nel suo coraggio riformatore e nella sua scelta di affrontare l’attività politica e parlamentare al fianco di De Mita con la pacatezza e i toni di uno studioso.
Roberto Ruffilli, trent’anni fa, ed è opportuno rileggere le motivazioni per cui le Brigate Rosse decisero di assassinarlo nella sua abitazione di Forlì: “Sabato 16 aprile un nucleo armato della nostra organizzazione ha giustiziato Roberto Ruffilli, […] uno dei migliori quadri politici della DC, l’uomo chiave del rinnovamento, vero e proprio cervello politico del progetto demitiano, teso ad aprire una nuova fase costituente, perno centrale del progetto di riformulazione delle regole del gioco, all’interno della complessiva rifunzionalizzazione dei poteri e degli apparati dello Stato. Ruffilli era altresì l’uomo di punta che ha guidato in questi ultimi anni la strategia democristiana sapendo concretamente ricucire, attraverso forzature e mediazioni, tutto l’arco delle forze politiche intorno a questo progetto, comprese le opposizioni istituzionali”.
Una mente lucida, finissima, un intellettuale che aveva compreso prima e meglio di altri la necessità di riformare lo Stato e le istituzioni, al fine di riavvicinare la cittadinanza ad un universo politico che già allora appariva distante, autoreferenziale, inconcludente.
Lo studio principale di Ruffilli rigardava il concetto di “cittadino arbitro”, ossia un cittadino partecipe, protagonista ma, soprattutto, in grado di determinare il corso della politica, scegliendo non più un partito ma una coalizione e, di conseguenza, la sua linea e la sua visione del mondo, con l’auspicio di porre fine ad un sistema a democrazia bloccata che costituiva il principale limite di un Paese ormai prossimo all’asfissia.
Moro e Ruffilli, la furia brigatista e il loro tragico e comune destino. Il riformismo dalla parte delle persone colpito al cuore e il peggior conservatorismo messo nelle condizioni ideali per arrecare danni che abbiamo già pagato a caro prezzo e continueremo a pagare ancora per decenni.
Non a caso, quasi nessuno, dopo la sua morte, ha preso in considerazione l’idea di modificare l’assetto complessivo di una Nazione il cui deficit di modernità è una delle cause principali della sua arretratezza in tanti altri settori. Una modernità che non significa lo stravolgimento di quegli equilibri straordinari ed intangibili stabiliti alla Costituente bensì un aggiornamento e un progresso dei medesimi, così da consentire alla democrazia di avere un avvenire anche in una stagione in cui oltre la metà degli abitanti di questo pianeta vive in un contesto non democratico e neanche sembra avvertire la necessità di maggiori diritti, tutele e garanzie.
Ruffilli, cinquantuno anni e una straordinaria sfida interrotta. Ma la sua profezia è ancora attuale, al pari delle sue battaglie, portate sempre avanti con quella mitezza e quell’onestà intellettuale tipiche dei galantuomini e di una classe dirigente ormai minoritaria.
Un vuoto, un’assenza, un senso d’abbandono e di solirudine straziante: questo proviamo oggi, al cospetto di una figura che parla ancora alla nostra dignità, alla dignità perduta di una politica di cui avremmo più che mai bisogno ma che forse, ormai, non è neanche più concepibile.
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