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Quid est veritas?

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Cos’è la verità è la domanda che Pilato pone a sé stesso al cospetto di Gesù, che rimane in silenzio.

Quid est veritas è il titolo della rappresentazione teatrale in quattro atti della passione e morte di Cristo scritta dal magistrato avellinese Matteo Zarrella, oggetto di ripetute rappresentazioni popolari nella settimana santa ad Atripalda ed altrove. Un testo pubblicato una quindicina di anni fa, e recentemente oggetto di una seconda edizione arricchita di una preziosa introduzione dell’autore (Editrice GAIA, 2017). E’ un testo teatrale che si legge tutto d’un fiato come un romanzo d’avventura e che, messo in scena, coinvolge profondamente gli attori ed il pubblico.

Attraverso il racconto di un fatto storico, rievocato con grande attenzione ai particolari ed alla procedura giudiziaria del tempo, emerge la drammatica potenza  degli interrogativi di fondo che accompagnano l’avventura umana nel volgere dei tempi. Innanzitutto il tema del processo: il processo a Gesù come archetipo di ogni tipo di processo nella storia in cui si confrontano la Verità, la Giustizia ed il Potere. Quando il Potere rinnega la Verità, corrompe la Giustizia e la trasforma nel suo contrario.

Da una procedura storica di giustizia sgorga un’ingiustizia soprannaturale. Questo passaggio drammatico viene avvertito da uno dei protagonisti più autorevoli, il governatore romano Ponzio Pilato, titolare dello ius gladii. L’interrogatorio che dovrebbe assoggettare l’inquisito alla potestà dell’inquisitore – come osserva l’autore nell’introduzione – si converte in dialogo, spezzato alla fine da una domanda che non trova risposta: che cos’è la verità, dove sta la verità?

Pilato intuisce che non c’è verità nelle farneticanti accuse del Sinedrio (nel linguaggio giuridico moderno potremmo parlare di nullità del capo di imputazione), quello che è in discussione è il potere della Casta sacerdotale, la necessità di serbarne il prestigio e l’autorità, minate dalla verità annunziata dal Cristo. Pilato si convince dell’innocenza di Gesù, ma in contraddizione con sé stesso, lo condanna alla Croce, cedendo alla ragione di Stato. Caifa e Pilato hanno agito secondo una stringente logica di Potere. Pilato rimane immortalato nel gesto di lavarsi le mani, come a manifestare il proprio dissenso da una decisione presa (in nome della ragione di Stato) su istigazione della folla.

La folla sobillata ed agitata da sentimenti di paura e di odio seminati ad arte, che grida il crucifige, è un archetipo di situazioni ricorrenti nella storia. Non a caso, Adolf Eichmann si è paragonato proprio a Pilato nella sua autodifesa al processo di Gerusalemme. Partecipando alla conferenza di Wansee, nel gennaio del 1942, dove tutti i notabili del III Reich decisero con entusiasmo di organizzare lo sterminio come soluzione finale del problema ebraico,  Eichmann confessa di essersi sentito come Pilato, non convinto ma trascinato dalla folla a conformarsi al crucifige.

Il dramma mette a confronto la Legge, espressione del potere del tempo  e la Giustizia espressione di un valore universale abbinato al valore della Verità e ci pone degli interrogativi perennemente attuali. E’ un dramma che si ripropone nella Storia nella più svariate accezioni. Specialmente quel grido: crucifige, ritorna a risuonare nel deserto delle nostre coscienze svuotate di umanità. Quando una folla sobillata da sentimenti di paura si compiace che i profughi scampati alla morte per annegamento nel mar di Sicilia vengano consegnati nelle mani dei boia libici da cui sono fuggiti, è l’antica invocazione crucifige che risuona, anche se noi non l’avvertiamo.

Quando la legge assoggetta a processo coloro che non hanno accettato il crucifige, allora si ripropone di nuovo il tema del confronto fra la Verità, la Giustizia ed il Potere. E’ un dilemma moderno, anche se nasce da un evento occorso oltre duemila anni fa.

di Domenico Gallo edito dal Quotidiano del Sud


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