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#MypicforShawkan, campagna di Rsf per chiedere la liberazione di Mahmoud Abo Zeid

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Continua il calvario giudiziario di Mahmoud Abo Zeid, il fotoreporter egiziano, anche noto con lo pseudonimo di Shawkan, arrestato il 14 agosto 2013 durante il cruento sgombero del sit-in dei Fratelli Musulmani al Cairo, allestito per condannare il golpe militare del luglio 2013. Shawkan stava svolgendo il suo lavoro per conto dell’agenzia inglese Demotix, documentando quanto stava avvenendo nei pressi della moschea di Rabaa al-Adaweyya, quando è stato arrestato senza una reale motivazione. Lo scorso 3 marzo la procura egiziana ha chiesto la pena di morte per Shawkan e gli altri 738 imputati coinvolti nel processo. Dopo diversi rinvii – almeno 5 tra marzo e aprile 2018 – il 10 aprile si terrà la 56esima udienza del processo a suo carico, sebbene risulti difficile definire “udienze” degli incontri che durano appena pochi minuti, giusto il tempo di permettere alla corte dei giudici di riaggiornare il caso. Si tratta di una pratica diffusa che consente alle autorità egiziane di fiaccare la resistenza degli imputati, magari inducendoli ad ammettere i loro presunti crimini, e costringerli a trascorrere quanto più tempo possibile in carcere subendo continuamente torture ed umiliazioni di ogni tipo.
Nel caso di Shawkan, il periodo di detenzione dura ormai da 4 anni e 8 mesi, equivalenti a circa 1.700 giorni di privazioni: una reclusione, la sua, che ha calpestato senza troppe remore i principi dello stato di diritto e quelli umanitari. L’art. 142 del C.P.P., infatti, permette la detenzione di un soggetto per 15 giorni senza una formalizzazione delle accuse dinanzi ad un giudice: questo periodo di detenzione può essere rinnovato per altre due volte. Se, però, il giudice ritiene che le indagini non siano state ancora completate nel limite dei 45 giorni, può decidere di estendere ulteriormente la detenzione preventiva del sospetto.
Tale periodo, però, è sottoposto ai limiti sanciti dall’art.143 del C.P.P., secondo cui la custodia cautelare può durare 6 mesi per i reati meno gravi, 18 mesi per quelli penalmente più rilevanti e 2 anni per coloro che rischiano l’ergastolo o la pena di morte. Ebbene, Shawkan ha dovuto attendere sino al 26 marzo 2016, giorno della prima udienza, per conoscere le ragioni del suo arresto. I nove capi d’accusa che gli sono stati contestati, tra cui l’appartenenza ai Fratelli Musulmani, omicidio e possesso di armi – accuse che finora non sono mai state provate durante il processo – hanno permesso alla procura e ai giudici di rendere Shawkan quello che non è: un criminale, anziché un giornalista. Sempre ammesso che si accetti l’idea per cui scattare fotografie possa essere considerato un reato, quello di Shawkan è finora l’unico caso di giornalista in Egitto che rischia la pena di morte per aver svolto semplicemente il suo lavoro.
Shawkan soffre di epatite C e le sue condizioni di salute si sono aggravate a tal punto che una sua liberazione per motivi medici sarebbe, oltre che necessaria, umanamente auspicabile. Tuttavia, i report forniti dai medici del carcere di Tora, al Cairo, sostengono che Shawkan sia in buona salute e che non abbia alcuna malattia. Anche in questo caso, la pratica di negare ai detenuti le dovute cure mediche è tutt’altro che estemporanea e rappresenta, semmai, un metodo consolidato per esercitare pressioni sui detenuti. Basti ricordare quanto avvenuto nell’ottobre 2016 a Mohanad Ehab, un 19enne egiziano morto a causa delle complicazioni della sua leucemia, aggravatasi durante la detenzione presso la prigione di Borg al-Arab, ad Alessandria, e mai diagnosticata dai medici del carcere.
Reporters Sans Frontières ha recentemente indetto una campagna di sensibilizzazione sui social network per spingere le autorità egiziane a rilasciare Shawkan. Chi vorrà, a partire dal 10 aprile potrà condividere sui profili social una propria foto, contrassegnata dall’hashtag #MypicforShawkan, facendo finta di trovarsi dietro a delle sbarre. L’iniziativa, sebbene focalizzata sul caso Shawkan, serve anche a far luce sui tantissimi egiziani che ancora oggi si trovano in carcere senza motivo e che rischiano lunghe pene detentive, se non addirittura la condanna morte. Secondo uno studio dell’Arabic Network for Human Rights Information (ANHRI), durante il 2017 sono state eseguite 43 esecuzioni a fronte delle 15 registrate nel 2016. Pur non avendola mai abrogata, l’Egitto ha sospeso per alcuni anni l’utilizzo di tali condanne, salvo poi riappropriarsene a partire dal marzo 2015 in occasione dell’impiccagione di Mahmoud Hassan Ramadan Abdel Naby, la prima dal 2011. Lo scorso febbraio, 21 persone sono state condannate alla pena capitale per il loro coinvolgimento in attentati terroristici e in tutto l’Egitto, ormai, il martedì è divenuto il giorno delle condanne a morte. Il marcato aumento di tali condanne è valso al paese il sesto posto nella classifica mondiale degli Stati con il maggior numero di esecuzioni, preceduto da Cina, Iran, Arabia Saudita, Iraq e Pakistan. I giudizi emessi dalle corti marziali nei confronti di comuni cittadini, di per sé contrari a qualsiasi standard internazionale e il cui utilizzo andrebbe limitato solo ai membri delle forze armate, finiscono per rappresentare la regola del sistema giuridico egiziano dal momento che qualsiasi azione giudicata contraria alla sicurezza nazionale può finire tra i banchi di un tribunale militare.
Chi non ha la “fortuna” di finire in carcere spesso viene fatto sparire nel nulla. Secondo l’Egyptian Commission for Rights and Freedom ci sono stati 912 casi di sparizioni forzate tra il 2015 e il 2016, 378 tra il 2016 e il 2017. Le torture e le ingiustizie perpetrate dalle forze di polizia nei confronti dei cittadini egiziani, commesse nella più assoluta impunità, definiscono i contorni di uno stato fortemente autoritario, repressivo e incurante di concetti quali giustizia, diritti umani e libertà individuali. Il governo egiziano, però, ha sempre respinto le accuse ribadendo che non esiste niente di tutto ciò: non esistono le torture, non esistono le sparizioni, non esistono, per intenderci, i vari Regeni d’Egitto.
Tra il 26 e il 28 marzo si sono svolte le elezioni presidenziali egiziane che hanno visto il presidente uscente, l’ex generale Abdel Fattah al-Sisi, vincere a mani basse (97%) contro l’unico, semi-sconosciuto, sfidante Moussa Moustafa Moussa che ha raccolto un misero 3%, superato persino dalle schede nulle che in moltissimi casi recavano scritto il nome del famoso calciatore egiziano Mohammed Salah. Elezioni che si sono svolte in un clima surreale, in cui i cittadini sono stati minacciati di multe sino a 500 sterline egiziane (circa 30 dollari) se non si fossero recati alle urne e in cui è stato, di fatto, impedito a tutti gli altri potenziali competitors di presentare la propria candidatura. Di tanto in tanto, la comunità internazionale ha espresso le proprie preoccupazioni all’ex generale in merito al peggioramento dei diritti umani, della libertà d’espressione e al clima d’impunità che continua a contraddistinguere l’Egitto, i suoi politici e i suoi funzionari. Tuttavia, alla luce delle decisioni che paesi come Italia, Francia, Germania e Stati Uniti hanno adottato negli ultimi anni, non sarebbe sbagliato definire queste prese di posizione come delle semplici dichiarazioni pro-forma. Roma ha di nuovo un ambasciatore al Cairo, ma chi si aspettava che il suo ritorno sarebbe coinciso con maggiori sviluppi sul caso Regeni è rimasto deluso. Parigi ha sottoscritto accordi milionari con l’Egitto per la vendita di armamenti e velivoli militari, al punto tale da divenire il primo partner dell’Egitto in ambito bellico. La Germania ha ulteriormente rafforzato la sua cooperazione con il Cairo in materia di sicurezza e aumentato lo scambio d’informazioni con l’intelligence egiziana. Per Washington, invece, o almeno per colui che ne occupa lo scranno più importante, al-Sisi continua ad essere quel “fantastic guy” di cui lodarne le belle calzature, a cui fornire ogni anno 1.3 miliardi di dollari in aiuti militari e a cui garantire sostegno nella lotta al terrorismo, anche se questo equivale ad un’accettazione dei suoi metodi brutali e della sua aleatoria democrazia. Ben vengano, quindi, i discorsi sui principi universali, ma sarebbe un utilissimo esercizio di stile e di onestà intellettuale riconoscere l’ipocrisia di molti paesi nei loro rapporti con l’Egitto. Ricordiamocene quando verranno anteposti i calcoli utilitaristici alla vita di un fotografo, di un blogger o di un avvocato le cui esistenze, magari, non serviranno a conservare i rapporti economici e diplomatici tra i paesi, ma potrebbero comunque tornare utili per mantenere in piedi la struttura morale e i valori che guidano le nostre stesse società.


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