Con la morte di Luigi De Filippo, figlio di Pepppino e nipote di Eduardo, alla nobile età di 87 anni, non scompare soltanto un uomo ma una dinastia di geni. Non stiamo parlando, infatti, di un semplice teatrante e nemmeno di un attore particolarmente dotato e straordinariamente istrionico: stiamo parlando dell’ultimo discendente di una stirpe che ci ha regalato non solo innumerevoli capolavori ma anche un immaginario collettivo all’insegna dell’ironia, del garbo, del buon gusto, della gioia e dell’entusiasmo per la vita.
Una napoletanità verace, quella dei De Filippo, scanzonata e profonda, sincera, in grado di scavare l’anima e di restituirci la grandezza e le miserie di una terra e di un modo di essere inimitabili, ricchi di umanità, tormento, splendore, eccesso e, talvolta, persino di quella sobrietà timida di cui non ci si può rendere conto se ci si ferma alla superficie del napoletano esuberante e caciarone e non se ne coglie la grandezza e la raffinatezza quasi filosofica.
Luigi De Filippo, ultimo baluardo di un modo di intendere il nostro stare insieme, ultimo sguardo colmo d’incanto sulla nostra società, ultimo ingenuo forse, lui che conosceva così bene le persone e i meccanismi che regolano il mondo, ultimo personaggio che non si rassegnava allo status quo e non sopportava la barbarie. E se non era proprio l’ultimo, era comunque uno dei pochi, esponente di una stagione e di una concezione dei rapporti fra le persone di cui purtroppo si è perso il seme.
Scrivo di lui con pudore, con nostalgia, con affetto, come se avessi perso un amico, uno di famiglia o, più semplicemente, uno in cui mi ritrovavo, di cui valeva la pena fidarsi, cui era impossibile non voler bene e di cui ora avvertiamo la mancanza: per ciò che è stato e per ciò che, purtroppo, non sarà più.
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