Irene Bregola, Andrea De Simone, Pietro Folena, Sara Nocentini, Simone Oggionni hanno lanciato un appello, che qui riproduciamo integralmente, per la costruzione di una sinistra sociale, socialista e per il lavoro. Per aderire scrivete a: stradaxstrada@gmail.com
Il testo dell’Appello
Le sconfitte sono sempre un dramma. Anche questa lo è, ma può essere anche la leva con cui ricominciare daccapo, imparando dagli errori. È essenziale però capire precisamente dove si è sbagliato, perché si è fallito. La nostra opinione è che si sono sommati errori strategici, di lunga durata, ed errori tattici, che riguardano la gestione del processo politico e persino della campagna elettorale. Ma è bene partire dai primi, appunto perché la sconfitta ha radici profonde, viene da lontano. Il voto del 4 marzo chiude un’epoca: un lungo trentennio nel quale la sinistra italiana – non meno di quella europea – si è illusa di potersi limitare ad accompagnare passivamente la traccia imposta dalla globalizzazione, da questa modernità, semplicemente co-gestendo le politiche neo-liberali. Allo stesso tempo, come controcanto di questa subalternità, abbiamo vissuto la stagione del radicalismo di una sinistra votata puramente alla testimonianza e al velleitarismo, che ha pensato fosse sufficiente esibire una bandiera per raccogliere una porzione di consenso e mettere al sicuro la propria coscienza. Anche questo approccio minoritario – ci dice il 4 marzo – non esiste più, non ha più alcuna credibilità.
Sotto le macerie rimangono la sinistra moderata e quella radicale, vittime del distacco che esse hanno prodotto dai sentimenti, dalla cultura, dai bisogni, dalla vita materiale e dunque dal consenso di un popolo e di un Paese che non ci riconoscono, che guardano altrove. Mentre il M5S strappa consensi trasversali e accende speranze tra le fasce più deboli e i settori popolari del nostro Paese e la Lega diventa partito di massa nel Nord e destra nazionale, mentre il 79% degli operai vota M5S o centro-destra, la sinistra appare probabilmente per quello che è: élite annoiata, establishment, classe alta, secondo quella definizione di Dumenil e Levy che unisce, in un impasto inestricabile, redditi alti e privilegi politici, ricchezze e rendite di posizione.
Il disagio, la sofferenza, la precarietà hanno voltato le spalle alla sinistra
La mappa del voto sovrapposta alla mappa economica del Paese, persino a quella sociale delle città, ci racconta di un voto per classe. Con il disagio, la sofferenza, la precarietà che hanno voltato le spalle alla sinistra, hanno determinato la sua evaporazione: sia di quella corresponsabile delle politiche d’austerità, sia di quella parolaia e disinteressata al governo. Allora qui si colloca il primo obiettivo che ci poniamo: nel disastro generale occorre ripartire dai fondamentali, coinvolgendo tutto il campo travolto e distrutto della sinistra politica e sociale.Con una proposta che strategicamente miri a ricostruire una sinistra con cultura di governo che prenda atto sia del fallimento della via imboccata dalla socialdemocrazia europea e dal centro-sinistra italiano negli ultimi anni, sia del fallimento della prospettiva della testimonianza, del piccolo partito o del piccolo cartello elettorale collocato per vocazione ai margini della scena politica e sociale. Questa è la nostra ambizione, abbandonando la presunzione dell’autosufficienza e la boria di chi pensa di avere pronte le ricette del futuro.
Più presenza nelle pieghe della società a partire dal mondo del lavoro
In secondo luogo: quali sono questi fondamentali? A noi pare che serva più studio, più capacità analitica, più rigore e anche – allo stesso tempo – più presenza nelle pieghe della società italiana, a partire dal mondo del lavoro. Se è vero che la sinistra che ha perso è stata quella che ha – consapevolmente o inconsapevolmente – frammentato l’unità del mondo del lavoro, la sua compattezza e persino il suo orgoglio; e se è vero che parallelamente ha perso anche la sinistra che è apparsa disinteressata, anche concettualmente, al mondo del lavoro e alla sua condizione materiale, allora la sinistra che va ricostruita è una sinistra del lavoro e per il lavoro. Non una cinghia di trasmissione del sindacato, che in questi anni ha sopperito a un vuoto ma ha subito – pure a sua volta – un simile processo di scollamento e di difficoltà. Non un partito vertenziale, economicistico. Piuttosto un grande soggetto con una propria visione autonoma del mondo che torni a dare forza e speranza ai lavoratori, ai disoccupati, alle forze produttive e alle intelligenze migliori di un Paese che vuole rimettersi in marcia.
Una forza che trovi il coraggio di proporre al Paese una vera riforma progressiva nella legislazione del lavoro. Che affronti il tema del salario minimo orario, di un piano per l’occupazione che affronti il dramma di chi non riesce a entrare nel ciclo produttivo o ne viene espulso e torni a dare allo Stato e al pubblico potere di indirizzo nelle scelte strategiche di interesse nazionale. Che proponga il reddito minimo garantito, non come sussidio di cittadinanza indiscriminato, ma come forma di tutela della dignità della persona connessa a politiche attive di reinserimento al lavoro. Che affronti di petto la piaga delle delocalizzazioni, dell’evasione fiscale dei colossi del web e che – sul modello tedesco – affronti la questione epocale della robotizzazione proponendo la riduzione dell’orario a parità di salario. Che parli di pensioni senza paura, interrompendo la tendenza in atto che mortifica i pensionati e blocca l’ingresso nel mercato del lavoro di centinaia di migliaia di giovani. Che faccia, insomma, scelte coraggiose (precise proposte di governo) indicative di un nuovo orizzonte, indicative della direzione di marcia che la sinistra in Europa (che l’Europa in quanto tale!) dovrebbe intraprendere.
Tornare alle radici di una identità che va ripensata e rilanciata
Un orizzonte socialista, in sintonia con le migliori esperienze della sinistra europea, a partire dal Partito laburista di Corbyn e dal fronte progressista che governa il Portogallo. Anche questo vuol dire tornare ai fondamentali, alle radici di una identità che va ripensata e rilanciata. Non si fa politica senza identità. Anche chi teorizza pensiero liquido e disintermediazione ha un’identità, agisce in funzione di una cultura politica. La nostra è questa: delle forze popolari e progressiste, di un nuovo socialismo che riparta, come suggerisce la Chiesa di Francesco, dalla vita delle persone, da un’idea pubblica di ricostruzione della credibilità dello Stato con un massiccio intervento per orientare e correggere l’economia, per combattere le diseguaglianze, per curare l’ambiente e promuovere i beni comuni, liberi dal dominio del mercato, per un nuovo senso di comunità. La terza conseguenza di questo ragionamento è semplice e riguarda precisamente il nostro Paese: non possiamo permettere che si consolidi un nuovo bipolarismo tra destra e Cinque Stelle e, a maggior ragione, non possiamo permettere che si consolidi un nuovo blocco storico che contenga la destra e il Movimento Cinque Stelle. Bisogna prestare attenzione perché siamo a un passaggio decisivo per la vita della democrazia italiana dal quale non usciremo chiudendoci nel nostro fortino. Un fortino piccolissimo, fragile, già assediato. Occorre guardare lontano, assumersi sulle spalle la sfida titanica di ridisegnare tutto. In Italia e per l’Europa che verrà. Di costruire lo spazio democratico e progressista in forme nuove, ricollocando a quest’altezza il tema delle alleanze a partire dai territori, dai Comuni e dalle Regioni dove questo è programmaticamente possibile.
La diciamo così: ciò che servirebbe – in forme inedite, tutte da inventare – è un nuovo soggetto laburista, europeo, moderno, popolare, radicale, con una vocazione naturale al governo. Una grande casa della sinistra italiana, che superi e accolga tutte le debolezze e tutte le fragilità che oggi sono in campo, nessuna esclusa. Se altri si ritraessero da questa sfida, se lo facesse il Partito democratico, compiendo l’ennesimo errore (in coerenza non soltanto con il renzismo, ma con quella presunzione dell’autosufficienza su cui – è bene ricordarlo – il Pd nacque), noi andremmo avanti da soli, cominciando a fare la nostra parte e costruendo quel partito della sinistra e del lavoro (un partito vero, fatto di iscritti, sezioni fisiche, militanti, teoria e pratica) che potrebbe dare al milione di voti di Liberi e Uguali l’unico sbocco possibile e utile in questa fase. Ma dichiarando da subito, allo stesso tempo, che l’orizzonte che ci interessa è quello e non è la testimonianza.
L’errore di non aver avviato con Mdp la costruzione di un vero e proprio partito
Infine gli errori soggettivi. Abbiamo scritto in apertura che la nostra esperienza nell’ultimo anno è stata segnata da innumerevoli errori tattici e di gestione. Ne parliamo in fondo, perché espunti dall’analisi generale non avrebbero senso. E tuttavia hanno un rilievo in sé, non vanno taciuti in un moto auto-assolutorio tipico, anch’esso, delle sconfitte di questi anni. L’errore di non avere avviato con Mdp la costruzione di un vero e proprio partito, radicato nei territori; l’errore di avere dato vita a un cartello elettorale; l’errore di avere compilato liste talvolta contro il parere dei territori, senza alcun processo democratico che le legittimasse; l’errore di avere impostato una campagna elettorale debole, confusa, priva di messaggi chiari e convincenti. E numerosi altri. Gli errori, le sconfitte, portano con sé come corollario inevitabile la necessità di voltare pagina. Il che non può che tradursi in un’assunzione di responsabilità da parte dei gruppi dirigenti. Qui si colloca il bisogno di ripartire con energie nuove, più credibili, non percepite o percepibili come corresponsabili di un numero infinito di battaglie perse. Parliamo della lista e del nostro movimento, Mdp. Assumersi soggettivamente la responsabilità della sconfitta e non andare avanti come se niente fosse è indispensabile. Così come lo è riconsegnare il prima possibile la sovranità agli iscritti, ai militanti, agli elettori che ci hanno dato fiducia.
Per una Costituente delle idee aperta a tutti. Nuove forme organizzative
Urge un processo democratico di confronto e partecipazione, vero, senza rete, che non si traduca né nell’assemblearismo a-democratico che abbiamo vissuto nell’ultimo anno né nel verticismo oligarchico che abbiamo sperimentato negli ultimi mesi. Una Costituente delle idee aperta a tutti, non una forzatura organizzativistica. Anche su questo versante serve originalità, umiltà, coraggio, promuovendo forme organizzative e di partecipazione nuove. Occorre un processo democratico che proponga un nuovo gruppo dirigente e che lanci la parola d’ordine della costruzione di un nuovo soggetto della sinistra e del lavoro interessato a ricostruire un campo progressista e democratico in grado di governare il Paese nell’interesse delle classi che abbiamo in questi anni abbandonato. Mettiamoci in cammino.