I morti in realtà non muoiono mai. Coloro che inopportunamente chiamiamo defunti, ossia sciolti dagli obblighi e dai travagli della vita, sono soltanto usciti dalle nostre possibilità percettive, diventando gli intervalli oscuri di uno spettro a bande. Ma continuano a esistere nel nostro sangue, mangiano e assaporano con la nostra bocca, ascoltano il verso delle tortore con le nostre orecchie, sentono il vento attraverso i nostri occhi, il gusto della risacca sulla nostra lingua. Diventano simili a figli fragili e infelici, o pieni di rabbia. Imprigionati in un’eterna nostalgia, nella mente dei sopravvissuti assumono la forma di una presenza colma di pena, di un conforto e insieme di una dannazione.
Il Prof. Phillip Goodman, di famiglia ebrea ortodossa, è oppresso nell’infanzia da un padre anaffettivo e manicheo, la cui figura tende a incarnare una Legge autoritaria quanto irragionevole. Facile intuire che ci troviamo dalle parti di Casa Kakfa. Una volta laureatosi in psicologia, Goodman dedica la propria esistenza in modo totalizzante e ossessivo a smascherare i falsi medium, gli imbonitori dell’occulto che sfruttano lo strazio di chi ha perso un congiunto e non si rassegna, non può rassegnarsi all’idea che tutto si estingua con la morte, che una persona di cui fino a poco tempo prima sentivano il calore delle mani, e potevano osservare sulla battigia – i capelli scompigliati dal grecale -, semplicemente non ci sia più.
Si muove implacabile, ripetendo come un mantra la frase il cervello vede ciò che desidera vedere, refrattario a ogni dubbio, finché un giorno, convocato in una lurida roulotte in riva al mare da un altro detective del paranormale scomparso misteriosamente da anni e ormai morente, viene in possesso di una busta contenente i dossier di tre casi inquietanti e invitato a risolverli.
Non si pensi a una narrazione lineare. I tre episodi che costituiscono il corpo del film sono tre tessere di un puzzle estremamente sofisticato, dove il disegno va componendosi sotto i nostri occhi entro il cerchio tracciato dalla sequenza iniziale e quella finale (una tendina gialla illuminata dal sole che si muove appena nella cornice di una finestra), identiche e solo in ultimo rivelatrici. Nello stesso tempo l’opera si muove anche in verticale, facendo saltare cronologia e compartimenti stagni fra realtà e rappresentazione metaforica, fra elementi oggettivi e trasfigurazione allegorica, giocando molto e magistralmente con paesaggi e luoghi (coste e brughiere dello Yorkshire, case in vario modo sinistre) frequentati dalla letteratura anglofona (Blackwood, Dickens, ma anche Lovecraft e King) e qui fotografati da Ole Bratt Birkeland in modo da rendere subito visibile, grazie a un iperrealismo a tratti divertito e realmente perturbante, il loro carattere allucinatorio.
In tutte le Ghost Stories analizzate si agitano interrogativi morali, etici, sociali, e la meditazione sul male connaturato nell’uomo, sulla sopraffazione di classe e di genere, ha la profondità dei racconti di Hawthorne unita a una sorprendente leggerezza. Nel primo “caso”, il cui preludio si svolge in un bar deserto e metafisico a metà fra l’Overlook Hotel di Kubrick e i caffè frequentati dai tanti Nighthawks di Hopper, il guardiano notturno Tony Matthews, diffidente e dedito all’alcol, rivive dolorosamente davanti a Goodman l’esperienza che gli ha reso la vita ancora più amara e insopportabile. Durante il turno di sorveglianza in un edificio fatiscente ha subìto l’abbraccio di uno spirito infelice. Questa costruzione un secolo prima era adibita a manicomio femminile. Vi venivano recluse tutte le donne non rispondenti ai criteri sociali di piena normalità: ragazzine rimaste incinte (i cui bambini erano gettati via subito dopo la nascita), prostitute, isteriche, mogli ritenute inadeguate (chissà quante), personalità devianti (*). Nella realizzazione e rappresentazione scenografica degli sterminati interni manicomaniali, avvolti nell’ambiguità della notte, Dyson e Nyman riescono a esprimere l’angoscia di una concezione dell’esistenza come eterno, inarrestabile ritorno (o persistenza) del dolore. La sopraffazione di esseri inermi viene evocata dai corridoi labirintici invasi da rifiuti e masserizie, dagli inganni prospettici (perfettamente controllati dalla macchina da presa), dal moltiplicarsi delle distorsioni ottiche originate dall’approssimarsi di una dimensione ignota e sofferente, dalla paura di Tony, che tuttavia non può soffocare il desiderio di capire, di sapere, di cercare un contatto con la bambina fantasma, derelitta e affamata d’amore, reclusa per chissà quale motivo in una delle terrificanti camere di correzione.
Nel secondo episodio il giovane Simon Rifkind, un ragazzo assediato dall’angoscia che vive chiuso a chiave nella propria camera dalle pareti coperte di immagini demoniache, agitato e sull’orlo di un pianto nervoso parla a Goodman del suo incontro nel bosco con un’entità malvagia. Forse una via di fuga al rancore ansioso e al senso di inadeguatezza provocati dalla famiglia.
Nel terzo, Mike Priddle, un broker ricco e cinico, così abile da essere soprannominato “il profeta”, guidando Goodman a passo svelto nella brughiera, gli descrive il gelo tutto metallo e vetro della sua villa hi-tech persa nella campagna inglese, e il salotto così asettico da apparire irreale nel quale si era manifestato una sera lo spettro già morfologicamente alterato e minaccioso della moglie, morta pochi istanti prima in ospedale dopo aver partorito un figlio-mostro, grumo organico generato da due moderni e iperpragmatici vampiri.
Quest’ultima storia apre un canale di comunicazione, per mezzo di passaggi fascinosamente surreali, con il passato di Goodman. Scopriamo così che da ragazzino era puntualmente vessato, perché ebreo e perché timido, da un paio di quei bulli che infestano ogni adolescenza. E un giorno, tornando a casa da scuola attraverso il bosco, i due lo avevano costretto ad assistere alla prova iniziatica fatale imposta a “Kojak”, ragazzo ritardato e ansioso di accettazione. Kojak avrebbe dovuto entrare in una caverna che proseguiva all’infinito diventando un cunicolo sempre più stretto, e contare i primi dieci numeri incisi nella roccia.
Solo che i numeri sono nove, il decimo non esiste. Così Kojak continua il cammino finché il panico arriva a scatenare una crisi epilettica tale da ucciderlo. Tutta la vita successiva di Goodman è dedicata alla rimozione, anzi al rifiuto violento di questa colpa. Non è stato lui a convincere Kojak, non è stato lui ad assassinarlo. Ma è stato lui a non avvertirlo, ed è stato lui a non chiamare i soccorsi. L’omissione può dannare come l’azione. Per questo motivo si affanna a negare i fantasmi, il soprannaturale, perché uno di loro gli pesa al centro del cuore. Se un essere umano contribuisce ad uccidere, e non accetta la propria colpevolezza, la sua intera esistenza si trasformerà in una fuga inutile. Fino alla rovina.
Goodman cerca di suicidarsi, ma, purtroppo (per lui) non muore, e cade in uno stato di coma irreversibile. Diventa una casa con tutte le luci accese ma vuota, un organismo destinato a guardare per sempre la tendina gialla che oscilla piano nel riquadro della finestra di un’anonima clinica.
La speranza è che i cinefili puri vincano i pregiudizi contro i film di genere e vadano a vedere questo piccolo, autentico gioiello splendidamente scritto, girato e interpretato.
luciatempestini0@gmail.com
(*) Nel corso dell’Ottocento, sia in Europa che negli Stati Uniti, l’ablazione del clitoride è stata usata come rimedio alla masturbazione. Con la clitoridectomia venivano ‘curati’ disturbi psichici come l’isteria, l’epilessia e la ninfomania. Nell’Inghilterra vittoriana l’asportazione del clitoride è stata adottata da una parte della medicina ufficiale e praticata negli ospedali psichiatrici sino ai primi decenni del secolo scorso. Anche secondo Sigmund Freud, è noto, l’eliminazione della sessualità clitoridea rappresentava un requisito indispensabile per lo sviluppo di una femminilità matura. (Danilo Zolo – Jura Gentium, Rivista di filosofia del diritto internazionale e della politica globale)
Paese di produzione | Regno Unito |
Anno | 2017 |
Durata | 98 minuti |
Genere | orrore, drammatico |
Regia | Jeremy Dyson, Andy Nyman |
Sceneggiatura | Jeremy Dyson, Andy Nyman |
Produttore | Claire Jones, Robin Gutch |
Produttore esecutivo | Peter Balm, Graham Begg, Will Clarke, Hugo Heppell, Andy Mayson, Mike Runagall, Barry Ryan, Niall Shamma, Charlotte Walls |
Casa di produzione | Warp Films, Altitude Film Entertainment |
Distribuzione (Italia) | Adler Entertainment |
Fotografia | Ole Bratt Birkeland |
Montaggio | Billy Sneddon |
Musiche | Haim Frank Ilfman |
Scenografia | Grant Montgomery |
Interpreti e personaggi | |
· Andy Nyman: Prof. Phillip Goodman
· Martin Freeman: Mike Priddle / Cameron · Alex Lawther: Simon Rifkind · Paul Whitehouse: Tony Matthews · Nicholas Burns: Mark Van Rhys · Jill Halfpenny: Peggy Van Rhys · Kobna Holdbrook-Smith: Padre Emery · Daniel Hill: Sig. Goodman · Amy Doyle: Esther Goodman · Ramzan Miah: fidanzato di Esther |